Tesori nascosti

di Maria Lucia Rametta

C’è un lago laggiù, coperto dalle le foglie dei faggi, insoliti sui fianchi di montagne abitate, per la gran parte, da conifere. Camminiamo in discesa: laggiù piani di luce specchiano il cielo. È il lago nascosto a chi guarda solo con gli occhi.

Lago di Mediana

Prima dell’ultima discesa uno spazio aperto sembra un cimitero: ceppaie rimangono aggrappate al terreno, attorcigliate nell’erba alta e nei rami spezzati. Camminiamo annaspando tra aghi e frantumi di abeti divorati dal bostrico. Cerco l’odore dolce di legna appena tagliata, odore di linfa sgorgante come una lacrima: l’albero spezzato sa di poter rifiorire, profuma e preme i polloni a nuova vita. Qui le ceppaie non hanno odore. Non piangono. Sono l’ultima presenza prima di sparire per sempre. Non germoglieranno più in primavera.

Una leggera tristezza mi accompagna a fondo valle; la intuisco anche sul volto rabbuiato di Omar. I riflessi dell’acqua danno conforto, allontanano un poco i pensieri dalla consapevolezza che qui, tra qualche anno, il bosco di abeti non ci sarà più.

Il lago si allunga – ha forma di goccia – più in basso rispetto al sentiero attorno alla riva. Macchie vitree di azzurri e verdi compatti fissano le immagini morbide dei faggi. Siamo immersi in un’ombra umida. Squarci di cielo sull’acqua sfilacciano i contorni laddove le chiome diradano il fogliame. Un tronco giallastro galleggia più o meno a metà tagliando in lunghezza la goccia d’acqua. La parte più vicina a noi si lascia ingiallire dai riflessi dell’erba di riva. Oltre il tronco, nella seconda metà del lago, l’acqua è luce. Riconosco i rami e le foglie, i tronchi e gli spazi vuoti. La striscia del sole, in fondo, accende una riva generosa di piante e arbusti in maniera tanto diafana da rimescolare il sopra col sotto, il dentro col fuori, il diritto col rovescio.

Mi siedo su un tronco irrorato di umori; le asperità delle schegge sono addolcite dall’umidità.

Chiudo gli occhi pieni.

Mediana

Voglio pensare come un animale. Vedere e sentire come un animale.

Tocco con i polpastrelli il muschio carnoso. È bagnato e profuma.

L’aria fruscia tra gli alberi e gli insetti arruffano il fogliame sotto i piedi.

Le formiche si arrampicano sulle mie gambe e un ronzio tenue è il tessuto sonoro.

Pluf. Un esserino si è buttato nell’acqua.

L’abbandono ai sensi fa paura, risveglia la parte antica dell’uomo.

Sembra di sostare in un sogno.

A volte, a occhi chiusi si vede meglio.

Si percepisce l’invisibile.

Stavoli di Orias

Saliamo a Orias. Non è un paese e neppure un borgo. È un luogo di stavoli rimasto uguale a sé stesso nonostante lo scorrere del tempo.

Gli stavoli sono edifici alti e stretti, in pietra e legno. I tetti sono molto spioventi e le aperture chiuse con assi, mai col vetro, per far circolare l’aria, asciugare il fieno ed evitare la proliferazione di muffe e batteri. Dodici in tutto, furono costruiti tra il 1800 e il 1830 rivolti tutti nella direzione del sole, per asciugare meglio il fieno stipato nei primi piani. Pedine ordinate in una scacchiera a metà strada sulla via dell’alpeggio.

I contadini e gli allevatori vivevano con gli animali a fondo valle. In giugno salivano in quota per rientrare in settembre. Durante i mesi invernali il bestiame mangiava fieno secco. In estate erba fresca. Le mucche avrebbero sofferto il cambio di alimentazione e lo sforzo fisico della salita percorsa in una volta sola. Gli uomini sapevano. Per questa ragione gli stavoli vennero costruiti più o meno a metà strada, una sorta di tappa intermedia.

Vieni, uno stavolo è aperto – Omar mi invita a entrare nella stanza al piano terra.

È buio. La fioca luce penetra da una piccola apertura nel solaio, tra le travi di legno.

Lungo il perimetro della stanza corrono le mangiatoie.

È larice? – chiedo.

Si, queste sono mangiatoie fatte con le travi di larice. I grandi buchi servivano per mettere le catene delle mucche. Il fieno era tenuto al piano sopra– indica Omar – e calato da quella botola lì

Sono immersa nell’odore umido della pietra e in quello dolce del fieno. Al centro il pavimento è più basso ed è ben visibile una canalina per lo scorrimento dei liquami.

Un finestrino piccolissimo, protetto all’esterno, manteneva il calore e le famiglie passavano le notti di transumanza in chiacchere assieme agli animali.

C’era letame sul pavimento ma la zona rimaneva estremamente pulita. Gli uomini e le donne raccoglievano il fogliame dei faggi in autunno con due grandi lenzuola. Le foglie venivano rovesciate a terra; una volta imbrattate si puliva e si buttava altra foglia.

Usciamo e facciamo quattro passi tra gli stavoli. Lungo le mura fioriture di gerani decorano i viottoli stretti. Le scalette in pietra di accesso ai primi piani sono rosicchiate dal tempo. Sembra tutto immobile. Rimasto. Su ogni muro c’è una poesia. Le leggo tutte.

Mi colpisce l’unica prosa, anch’essa appesa alla pietra, tratta da Questa libertà di Pierluigi Cappello:

Ognuno di noi ha il suo porto sepolto dentro di sé; quando io profondo nel mio le prime parole che mi vengono incontro sono quelle della mia infanzia sul colle e sono la parola “ombra”, la parola “acqua”, la parola “pietra”, la parola “muschio”, la parola “nuvola”, la parola “fatica”, la parola “silenzio”. Con le parole, piano piano affiorano i luoghi e i volti e mi viene incontro mia madre, che mi prende per mano e mi porta a cogliere i bucaneve lungo le rive gelate del torrente a febbraio.

E allora, in quel momento, mia madre, io, il candore dei bucaneve su letto di muschio e l’acqua sulle pietre levigate, siamo di nuovo uniti e rinnovati, custoditi dal silenzio, la parola che preferisco. E anche se so che il silenzio si declina in molte forme, quello che io amo è la cripta d’amore che custodisce e rinnova, dove si scende piano piano, con deferenza, a piedi scalzi.

Rimango avvolta dalla dolcezza, racchiusa tra le parole.

Orias (foto di silvia Pasin)

Il racconto sopra riportato è inserito nel libro “Carnia” di Maria Lucia Rametta – disponibile per l’acquisto on line a questo link

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