Passi di storia

di Maria Lucia Rametta

Attraversare a piedi un territorio non è, per me, un mero consumo di calorie. È seguire il volo di un grifone che appoggia le ali aperte sulle correnti di quota. È essere accompagnati dalle impronte fresche degli ungulati e dal fischio delle marmotte. È immergersi nel vento così forte da non sentire le parole del compagno di traversata. È una lettura ad alta voce assorbita dai prati. È il silenzio attorno. Caduto all’improvviso dentro le trincee di guerra, spalmato sui fianchi di Spina Pesce, montagna sola attraversata dalla violenza dei cannoni. È un invito all’ascolto, a porsi in atteggiamento confidente con le terre alte.

È lasciarsi penetrare dal vento.

I pascoli di Sissanis di sotto

La giornata inizia da Pierabech, località oltre Forni Avoltri. Parcheggiamo e ci inoltriamo verso la stretta di Fleons, dove c’è la presa della Goccia di Carnia. Lo scroscio forte dell’acqua copre le nostre voci.

– Dove inizia? – chiedo a Omar riferendomi all’impeto del torrente.

– Filtra dalle ghiaie della valle di Fleons e riunisce i ruscelli più alti – Omar conosce bene la zona. Ci veniva da bambino con sua mamma per andare in malga.

– Attraversavamo i sentieri a piedi con le mucche. Guardavo le cime e sognavo me, da grande, camminare quassù – Lo vedo assentarsi un po’ dentro il luccichio dei suoi occhi trasognanti.

– Per arrivare alla malga dove mia nonna portava le mucche dovremmo girare a sinistra inoltrandoci nella Valle di Fleons, verso Sankt Lorenzen, il primo paese dell’Austria che si trova scendendo questa valle qua –

Ha voglia di tornarci, Omar. Scegliamo di proseguire.

Una parte della casera Sissanis

Il bosco di abeti ci accompagna per un lungo tratto. Alberi color della ruggine macchiano la distesa verde, opera del bostrico. Sono tante le ceppaie. Il bostrico attacca l’abete rosso, quello bianco resiste.

– Noti la differenza di verde tra l’abete bianco e l’abete rosso? – provoca Omar.

– Il rosso è più gialliccio. Il bianco è più scuro –

– Sì. Gli aghi dell’abete bianco sono traslucidi nella pagina inferiore. Sopra sono più scuri. Gli aghi del rosso sono più pregni di giallo –

Il sentiero è tranquillo e si apre sul pascolo di Sissanis. Alla nostra destra dominano alte le Dolomiti Pesarine, distinte nel Cimon di Entralais, Pleros, Creta di Chiampizzulon e Creta Forata. Di fronte a noi si alza l’imponente piramide rocciosa del Navagiust.

Dall’alto di Sella Sissanis si vede il Lago Pera, ai piedi della Quota Pascoli. Nel Passo Val D’Inferno sono ancora evidenti i tagli delle trincee.

Un cartello divelto indica il vecchio confine. A pochi metri un mattoncino bianco, datato 1920, porta, sulla faccia superiore, la linea nera dell’attuale confine. Omar e io giocherelliamo a essere di qua o di là, in Italia o in Austria.

Entro in piccole grotte ingrandite dal piccone dei soldati. Omar trova munizioni arrugginite e già esplose. Un po’ mi rattristo. Una terra così silenziosa è stata eco di spari e bombe, delle urla di uomini feriti, morenti, mutilati. Si senta ancora l’odore di polvere da sparo. Si sente ancora la paura.

Camminiamo sulle ghiaie al di sotto della Creta di Bordaglia, verso Passo Giramondo, un passo d’emigrazione. Gli emigranti andavano in Austria (i cramars, n.d.r.). Qualche mugo costeggia il passaggio.

– I mughi rilasciano aria calda e umida. Noi guide ci diciamo che quando i sentieri in estate si sviluppano in mezzo ai mughi c’è da crepare. Cerchiamo di evitarli –

Si apre un vallone ampio. Al centro una montagnola rossiccia è distante per formazione geologica dal grigio chiaro dei monti di Volaia e della Pietra bianca. È una cresta a picco sui versanti intorno, alta poco più di 2000 mt.

Si chiama Spina Pesce e deve il nome alla sua conformazione. È emersa dalla spinta di forze endogene, per affioramento in seguito a movimenti sismici. Sotto di lei c’è una faglia. Si alza dal verde dei prati, verticale e sottile.

Ai tempi della Grande Guerra sulle sue pareti verticali sostarono, per lungo periodo, i due schieramenti contrapposti. Nel 1916 i soldati italiani, volontari, la occuparono e la difesero dagli attacchi austriaci.

Omar mi fa notare gli intagli nella roccia, i muretti a secco, le piccole concavità scavate per necessità di vita in quota, per difesa e presidio. Grotte per i bivacchi. Fori di armi da fuoco. Incisioni, scritte dai soldati che, presi da solitudini estreme, apportavano sulla roccia.

Immagino la fatica nel salirla.

Immagino le difficoltà degli uomini di allora, aiutati solo da una corda inchiodata alle rocce, sotto il tiro delle munizioni nemiche, carichi di rifornimenti e munizioni.

Immagino le piogge, le nevicate, il freddo. Immagino il silenzio e la cautela nei movimenti.

Lo tocco il silenzio: sembra che l’ultimo soldato abbia lasciato la sua postazione solo ieri. O forse si aggira ancora qui, intorno alle rocce, nascosto dall’esigua vegetazione. La solitudine di Spina Pesce vibra frequenze ignote a tanti, a me non inedite.

La roccia ha memoria. I solchi approfonditi dall’acqua sono rughe. Le scheggiature dei proiettili, cicatrici.

Le grotte scavate dai soldati sono tagli inflitti da bisturi usati per guarire la malattia da potere. Rimangono tagli e malattia. Omar si accorge del mio mutismo interiore. Ci guardiamo in silenzio.

– Vuoi avvicinarti? – chiede con garbo.

– No. Preferisco salire lassù –

Avverto qualcosa di magnetico. Spina Pesce mi respinge. Nello stesso tempo vuole che resti. Sento mio questo luogo. Vuole essere ascoltata. Devo rimanere.

– Omar, le pietre hanno memoria? –

Sorride. Non so se mi prende in giro o è complice del mio sentire.

Saliamo su una piccola cima senza nome da cui si vedono bene tutte le cicatrici di Spina Pesce. Le siamo a fianco.

– Ho scritto un racconto su questo luogo –

– Me lo leggi? – chiedo, avida della sua storia.

Il vento sferza insistente. Copre a tratti il suono della voce ma non le parole.

Sono sempre rimasta in pace quassù, avvolta da spazi di cielo e terra dove lo scorrere del tempo altro non è che il procedere regolare del sole in cielo. Sorge a levante, dietro ai monti di Volaia, cala a ponente verso la Pietra bianca. Da sempre è così, ora dopo ora, giorno dopo giorno, secolo su secoli. Del resto a duemila metri sul livello del mare, nel cuore delle Alpi Carniche, c’è poco da inventarsi.

[…]

Ma c’è stato un tempo, circa cent’anni fa, in cui i nostri colori naturali mutarono macchiandosi di rosso, rosso sangue. E nero, nero fumo, per le esplosioni delle granate.

[…]

Gli uomini, si sa, non sanno accontentarsi di quello che hanno e vogliono di più. Ma quassù non vige la loro legge, quassù vale la nostra.

Da In Carnia per Terre Alte di Omar Gubeila imparo l’urgenza di umiltà. Non rimanere indifferenti aiuta a essere più umani.

Alle diciassette abbiamo appuntamento con Giacomo Pinna, a Forni Avoltri. Ci affrettiamo giù per la Val Bordaglia. L’ultima parte di sentiero è larga e sterrata per consentire il transito di mezzi pesanti, carichi di legname. Il rumore delle seghe si intreccia allo scroscio forte del torrente che precipita dalle cascatelle. Ogni tanto un tonfo dichiara la fine di un albero.

Mi arriva un odore intenso di legno vivo, dolce, inebriante avvolgente. Mi ricorda quello delle falegnamerie; nelle falegnamerie sa di morto; qui profuma di vita.

Da lontano echeggia il rombo di un tuono. E il rigoglio dilavante dell’acqua

Giacomo Pinna ha un’età sacra e la dolcezza spalmata sul volto. Gli occhi guizzano vigili e inquieti.

Il fisico asciutto è vestito con la sobrietà di una camicia a scacchi leggeri. Si occupa con passione di accogliere visitatori al piccolo museo del paese. Giacomo e Omar si sono inseguiti parecchio senza mai incontrarsi prima di oggi. Stanno lì, uno di fronte all’altro con l’emozione negli occhi.

SCOPERTA DELLA GALLERIA

Raccontiamo il nostro giro di oggi. Giacomo si illumina e dice che lassù ci sono ancora i corpi di tre soldati. Gli altri sono stati trovati in passato.

Mi impressiono. Il richiamo all’ascolto di Spina Pesce non era destinato solo a me.

Tra le tante gallerie costruite dai soldati italiani durante la Prima Guerra Mondiale c’né una particolare. Particolare per la storia della sua scoperta. Giacomo racconta quel momento.

Ho vissuto un’emozione indescrivibile.

Era il 2007. Giravo col colonnello Gianpaoli e un altro nostro amico. Andavamo sui monti in cerca dei manufatti della Grande Guerra per fotografarli e filmarli. Sotto una trincea di prima linea, in Val d’Inferno, uno di noi notò qualcosa. Era l’entrata di una galleria, otturata a metà a causa dello sfaldamento delle rocce e della terra. Solo una piccola parte era aperta, nascosta dalla vegetazione e delle erbe alte. Uno di noi, curioso, ha messo dentro la testa ed è entrato. Subito non ha visto niente. La galleria è ad angolo sei metri per dieci. Si vedevano solo i primi sei metri con alcuni pezzi di legno. L’amico aveva una pila. Si è girato a destra verso l’imbocco dell’angolo di galleria e ha visto un lettino in legno. Era un lettino a castello. Nessuno di noi se lo sarebbe mai aspettato. Dopo cento anni trovare un lettino in legno.

Abbiamo cominciato a girare ma la pila si è esaurita e siamo dovuti uscire, con la promessa di ritornare.

Dopo qualche giorno abbiamo deciso di tornare. Abbiamo preso con noi una pila enorme, lunghissima. Però, quando l’abbiamo messa nello zaino, si è accesa e noi non ci siamo accorti. Abbiamo lasciato la macchina e camminato per tre ore e mezzo. Arrivati alla galleria la pila era scarica. Siamo rimasti con le pive nel sacco. Beh, pazienza. Abbiamo fatto una camminata, guardato altre cose, reso utile il nostro tempo.

Dopo qualche giorno ci siamo fatti furbi: abbiamo preso più pile. Quando siamo arrivati su eravamo in tre e ognuno aveva il suo compito. Io avevo il compito di misurare i legni e fare valutazioni.

Tutti noi eravamo concentrati nel nostro lavoro, ma i pensieri andavano a chi avesse vissuto dentro, come spendesse il tempo in galleria, quali fossero i sentimenti, le paure, le angosce, quali i pensieri.

Gli occupanti erano soldati in guerra, oltretutto in prima linea, sotto la mira di armi pronte a colpire.

Siamo stati dentro più di un’ora e non ci siamo mai parlati. Si era venuta a creare un’atmosfera particolare, un pathos. Avevo la sensazione che ci fosse qualcuno dentro.

Una volta fuori ci siamo confrontati. Tutti e tre abbiamo pensato che ci fosse qualcuno dentro, non so, la sensazione era quella lì; però non c’era nessun’altro oltre noi. C’erano quelli che avevano vissuto lì prima di noi.

La galleria con il lettino è una memoria persa e ritrovata. Alla fine della Prima Guerra i malgari sono tornati a riabitare le malghe. Sono tornate le mucche al pascolo, i pastori, i casari. C’erano anche i recuperanti: salivano alle prime linee e recuperavano il ferro, il piombo e tutto il materiale rivendibile. Nella galleria abbiamo trovato solo il legno dei lettini. Erano passati i recuperanti. Inoltre i pastori si ricoveravano in caso di temporale e forse hanno dormito nei lettini.

Negli anni ’50 e ’60, in coincidenza col boom economico, le malghe sono state abbandonate in buona parte. Di conseguenza nella zona del ritrovamento non passava nessuno ed era fuori dai sentieri CAI. Qualche cacciatore forse. Lo sfaldamento della roccia e la crescita di vegetazione ha nascosto e protetto la galleria.

La ricostruzione della galleria nel museo di Forni Avoltri

Il racconto sopra riportato è inserito nel libro “Carnia” di Maria Lucia Rametta – disponibile per l’acquisto on line a questo link

https://www.amazon.it/Carnia-Maria-Lucia-Rametta/dp/B0DJ2JL7W3

Lascia un commento

Website Built by WordPress.com.

Su ↑