03.11.2014
Faccio difficoltà a ricordare le date importanti, che so, compleanni, anniversari, eventi.. Ma ce ne sono un paio che mi stanno molto a cuore e non dimentico facilmente. Una di queste è il 3 novembre.
Il 3 novembre del 2004 fu un giorno maledettamente triste, per tanti come me che hanno avuto la fortuna di conoscere Francesco Plazzotta, il mio dirimpettaio d’allora.
Tendenzialmente chiamato “il Franz” dai colleghi, lo volli soprannominare “il Checo”, mi stava più simpatico così. Una maniera alternativa per stringere un rapporto in modo più saldo, per annodarlo meglio.
Arrivò ad abitare nella mia via dopo la ristrutturazione di quel palazzo quadrato, lasciato alla deriva per parecchi anni. Con la famiglia riportò movimento e allegria dentro quella corte .
Complici conoscenze comuni e la frequentazione del nucleo del Soccorso Alpino della G.d.F. stringemmo subito amicizia. Lui aveva una predisposizione all’approcio cordiale verso le nuove persone, quindi nei miei confronti, è stato magnanimo… Col sennò di poi sorrido ricordando le ore passate sulla ringhiera di casa a discurete di vie di montagna, di sciate, mentre suo figlio giocava e il cane Wisky continuava ad abbaiarmi per la gioia del vicinato. Dovevo essere un vero rompiballe.
Ne venne fuori un rapporto che mi diede in primis parecchio dal lato umano. Perchè il Checo era una persona che reputavo speciale, una di quelle con cui le cose vanno per il verso giusto da sè, senza dover star troppo a pensare al modo di porsi perchè qualunque modo sarebbe andato bene.
Al venerdì, puntuale come un orologio svizzero, mi presentavo al suo campanello e la domanda era la solita “Checo non è che mi presti i frend?”.. E lui che già conosceva le mie consuetudini aveva il mazzo pronto, di varie misure, con sti moschettoni un pò grossi legati ad un cordino in Kevlar bianco-rosso che a forza di chiederli in prestito mi ricordo perfino sti particolari.
Con la macchina nuova mi portò in una delle mie prime sciate “serie” in ambiente, il Giogo Veranis.. Neve polverosa all’ombra della parete nord dell’Avastolt, su oltre la casera di Fleons semisommersa.. Io seguivo lui che apriva traccia come un trattore, con il pile grigio dalle spalle gialle, uniforme dell’epoca. Alla sella non ci arrivai, mi bastò guardare lui dal basso e la sua maestria nelle curve che faceva per essere contento; un moto di invidia nei suoi confronti con la speranza di diventare un giorno altrettanto bravo.
Devo anche a lui la mia misera carriera nelle fila del soccorso alpino.
Con il Checco andammo anche a fare ice-climbing in Val di Preone, nella cascata che ribattezzai sucessivamente “la cascata del Checo”. Spicozzava ridendosela dove io non mi alzavo neanche con la scala. C’ho ancora un filmato di quella giornata, spero di riuscire a recuperarlo.
Ho arrampicato a Illegio legato alla sua stessa corda, non me lo ricordo come un fuoriclasse della disciplina ma sicuramente uno bravo. Preferiva le vie in montagna. Ricordo ancora che un giorno, al solito appuntamento dei frend, mi portò la fotocopia di 2 relazioni delle Alpi Venete. Erano 2 vie da lui aperte, di 5° sulla N del Zuc della Guardia, nel gruppo dello Zermula. La fotocopia è ancora nei miei cassetti, non ho mai avuto modo di provare la ripetizione ma ci sarà la giornata giusta anche per questo.
Poi è arrivata quella dannata notizia. Ricordo ancora, in camera mi chiama l’amico Caç, avevo il mio primo cellulare… Mi dice quello che è successo, le idee mi si confondono nella testa ma poi il notiziario di Radio Studio Nord non lascia spazio a fraintendimenti. “Sul gruppo del Piombada è scivolato un finanziere del soccorso alpino di Tolmezzo”, così diceva la voce di Bruno Tavosanis. Ho quei momenti stampati nella testa come fosse successo ieri, e son già passati 10 anni.
Mi tirai in terrazza, seduto al sole a guardare il cancello del Checco dove iniziava ad arrivare una processione di persone, chi in divisa chi in abiti borghesi a trovare la famiglia. Quanto ho pianto, credo che mia mamma non mi abbia mai visto in quelle condizioni. Non volevo crederci, non potevo.
Non ha mai proferito parola mia mamma. Capiva benissimo il mio dolore, anche la sera quando mi portò al cimitero di Verzegnis dove la salma era stata adagiata nella camera ardente. Un grosso colpo alla nuca gli era stato fatale. Ricordo il silenzio dei suoi colleghi, pieno di lacrime, ci salutavamo a mugugni. Per fortuna non ero ancora entrato nel soccorso alpino, non so come avrei reagito se mi fosse toccato il suo recupero.
Dopo l’ultimo sguardo al suo volto ho un vuoto, non ricordo nè funerali nè cimitero. Preferisco ricordarlo in altri modi, con il suo naso spigoloso mentre mi racconta di giri fatti, mentre chiama il cane alla sua maniera, o mentre mi descrive un pomeriggio estivo passato sull’argine del fiume dove le presenze femminili sono talmente tante da dirmi “Omar, a l’è plen cussì!”
“Plen cussì”, in suo onore, è una vietta che ho aperto nella giogaia della Creta Monumentz, come dice Mazzilis. Non una grande via, 4 tiri scarsi dalla roccia però splendida e dalle basse difficoltà. La mia maniera di ricordarmi per sempre del Checo, così come hanno fatto i suoi compagni finanzieri con il trofeo Plazzotta sullo Zoncolan.
Mi piace scorgere nei lineamenti dei suoi 2 figli gli stessi che lo identificavano, bravi ragazzi tirati sù da una mamma con le palle.
E un sorriso accennato mi viene sempre passando davanti alla caserma che ora porta il suo nome, o sulle cime delle montagne che raggiungo.
Plen cussì..
Ciao Checo.
Proprio un bell’articolo, commovente. Ciao ciao.
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