Riflessioni a caldo da parte di Bruna, collaboratrice di APDC, dopo la lettura del precedente post. Una visione profonda di quanto, per alcuni, la montagna rappresenti molto più che un terreno di svago..
“Quando percorri sentieri e tocchi rocce che non frequenti da tempi che nemmeno ricordi, ti può capitare di andare oltre quella scorza superficiale dove i più si soffermano. Lasci la montagna dell’apparire, delle comparsate domenicali senza comprensione, del mordi e fuggi. Un mondo che trasfigura cime e boschi sul monitor dello smartphone; con filtri di luce che mutano costantemente l’aspetto della realità in qualcosa di più lucente, nitido, contrastato. La saturazione dell’immagine dev’essere spinta perché solo le tinte forti possono attirare questi occhi assuefatti a immagini di una montagna sempre più stereotipata e fasulla.”
da “La mirabile arte di Mastro Vernice”
E’ la montagna degli inconsapevoli – così io li chiamo – di coloro che se ne definiscono appassionati, amanti.
Ma l’amore ha tante sfumature e modi. Quello è l’amore fuggevole, effimero. E’ l’amore che prende e non dona, che usa, che possiede. L’amore più simile a quello di una one-night stand che a quello di un rapporto profondo e durevole. La passione, si sa, si accende e si spegne come un fuoco di paglia e spesso lascia solo uno sgradevole odore di bruciato.
Ho sempre pensato che la montagna fosse femmina. La mont dicono in Carnia e i carnici la sanno lunga. Lo skyline settentrionale visto dalla pianura pare un corpo femminile steso all’orizzonte i cui seni turgidi sono le Alpi e i fianchi rotondi le Prealpi. E’ femmina perché muta umore, ma mai senza un perché. E’ luminosa e cupa, tempestosa e solare, scura nel buio della notte e chiara e luminosa, quasi di luce propria, nelle giornate terse dopo un temporale estivo o una tempesta di tardo autunno.

Ho sempre pensato che la montagna fosse madre. Madre amorevole e severa, accogliente e sfuggente. A volte te ne sfugge il senso e lo cerchi fra le pietre abbandonate delle malghe diroccate, fra la roccia vergine o spittata, sui sentieri battuti o poco tracciati e fra la sua gente. Ne cerchi il senso nelle parole delle sue lingue alpine, ricche di suoni tronchi e duri, nei racconti delle persone che la abitano, nelle loro storie e nella sua Storia. E così ti capita di ascoltare un ragazzo che ti racconta del tatuaggio che ha sul braccio: un gugjet, il simbolo della Carnia, delle sue donne e della loro forza. Oppure di ascoltare un vecchio resiano mentre canta in una lingua arcaica una canzone antica che parla del Canin e dei suoi dirupi o una donna che racconta con voce rotta il dramma degli optanti, dei “partiti” e dei “venuti”, dei “sommersi” e dei “salvati” non dalla furia nazista ma da una pulizia etnica passata per decenni sotto silenzio e perpetrata dallo stesso disegno politico. Ferite ancora aperte nella memoria storica delle famiglie.
E se ami tua madre a volte le chiedi di raccontarti come era la sua vita prima che tu nascessi, di quanto bella era da giovane e di quanta fatica si fa ad avere figli, crescerli e vederli partire.
E guardi le sue foto in bianco e nero. Le foto di quando il treno arrivava fino a Villa Santina e la valle era una distesa di prati e pascoli o di quando il treno a vapore attraversava la Valcanale sbuffando e fermandosi ad ogni paese.
Se ami tua madre la proteggi dalle ingiurie del tempo e da chi ne vuole soltanto assorbire l’energia positiva che emana a costo di passare per scorbutico e misantropo.
La montagna può essere anche una madre adottiva, a patto che tu stesso la tratti come tale e che, in cuor tuo, senta i suoi figli naturali come fratelli. Che tu riconosca nel loro sentire il tuo, nella loro ansia la tua, che tracci un cerchio attorno a te e a loro e che in esso intrecci relazioni che non siano solo di dare e avere, di “ do ut des” ma di riconoscenza perchè ogni volta che varchi la soglia fra la pianura e i monti loro ti aprono la loro casa materna. A patto che tu cammini sui suoi sentieri con passo felpato e leggero, senza lasciar traccia del tuo passaggio, come se indossassi gli scarpets di panno e velluto nero ricamato che indossavano le portatrici sui sentieri rocciosi del Pal.
Una madre non si possiede…sei tu figlio suo! Una madre non ti possiede: è tua madre!
“Fî di cui?” Di chi sei figlio, chiedono i vecchi per individuare le tue origini e inquadrarti in qualche albero genealogico di cui conoscono rami e foglie.
“Fî dal cret!” Figlio della roccia, rispondi, usando le parole di una canzone che pare l’inno di una meglio gioventù che insiste a rimanere attaccata a quella roccia. “Ma setu cjargnel?” chiedono perplessi. “No, ma aj zâ fat domande di adozion…cuissâ..”
di Bruna Scjarazule
