Cave del Predil è un piccolo paese della montagna Tarvisiana che porta nel nome la sua nascita, la sua ragion di vita e il suo abbandono. Assieme alla sorella miniera di Bad Bleiberg, poco oltre Arnoldstein in territorio carinziano, la genesi di questo gruppo di case, di cuori e picconi, si deve a quell’invisibile ricchezza celata alla vista nelle viscere più profonde di queste montagne. Dalla fine dell’ottocento il ricco giacimento di Piombo e zinco cambiò per sempre quello che era in origine un piccolo borgo montano del regno austroungarico. Raibl, solo successivamente riscritto in Cave, venne stravolto da turni di lavoro in galleria e carrelli che dal profondo della terra vomitavano tonnellate di inerti alla ricerca dei preziosi metalli tanto ambiti. Si costruirono rotaie, si scavarono nuove gallerie e i livelli raggiunti nel sottosuolo furono sempre più vicini all’inferno. La vita di miniera non è certo una passeggiata, saranno centinaia gli uomini impegnati, vermi vincolati al continuo scavo di gallerie sempre più nere e profonde. La gente ci lavora per un tozzo di pane ma tant’è: il sudore del piccone e i crampi della trivella garantiscono sostentamento a numerose famiglie.

La miniera, attorno agli anni 50, sta vivendo uno dei periodi estrattivi più floridi da quando è in attività, dopo i disastri delle guerre mondiali. Vicende che, per tutti, restano incancellabili storie vissute. Vicende che nella valle di Predil hanno lasciato numerosi ricordi di quegli anni bui.
Durante il primo conflitto mondiale il fronte distava pochi chilometri. La storia moderna passò come un treno in piena a Raibl nell’ottobre del 1917, in quei giorni piovosi che precedettero l’ultima grande battaglia del fronte orientale, quella definitiva. Tra le varie arterie della miniera, la galleria di Bretto raggiungeva il territorio, ora sloveno, oltre il passo del Predil. Ad una profondità di 240m al di sotto del paese, inizialmente realizzata per il deflusso delle acque minerarie, venne attraversata a più riprese dai soldati dell’imperatore, stavolta protetti nel profondo grembo della terra dal fuoco d’artiglieria italiano che batteva le prime vie e le seconde linee in cerca di morte dalle alture di Sella Nevea. In tre giorni da quella galleria, sotto le case dei minatori, passò l’intero esercito austroungarico che di lì a qualche giorno causò quella ritirata incontrollata e destabilizzante che venne in seguito chiamata “la rotta di Caporetto”.
Pare che tutto, quassù, debba essere partorito dal cuore della terra. Dalla stretta galleria di Bretto, inizialmente destinata al passaggio di piccoli vagoni carichi di piombo e zinco, una fiumana di Shutzen si riversò nella valle della Koritnica con il favore delle montagne del Predil, celanti agli italiani la vista di quanto stava accadendo. Pochi giorni e cominciò la fuga del regio esercito lasciando sul terreno trincee e postazioni fumanti. Roghi ed esplosioni tappezzarono queste montagne di delusione, rabbia e paura. Nessuno urlava più “avanti Savoia!”, ognuno in cuor suo pensava solamente a riportare la propria pellaccia a casa. Una fuga incontrollata dalle montagne per non essere accerchiati, una fuga paurosa quella degli italiani per raggiungere la pianura friulana. Una ritirata dove il nemico alle calcagna pareva correre più veloce.
Vicende indelebili di questi luoghi, la valle del Predil, crocevia di passaggio tra territori e genti. Di queste storie di sangue, di queste vicende di confini e divisioni, restano evidenti i segni poco oltre il paese dove la neve dell’inverno si fa acqua nell’estate e colore smeraldo nel lago di Predil. Sulle sue sponde un forte, arcigno e vetusto, è segnato dal tempo e ricorda quei giorni di sibili e granate. Poco lontano un obice inclina la sua canna dall’anima rigata verso la Slovenia, ha ruote flaccide che vivono memorie di battaglie ormai lontane.
L’inverno a Cave è inverno vero. Le giornate corte nella valle si rassomigliano, il poco sole è comune denominatore di terre più ostiche e meno esotiche. Qui la neve si mischia al ghiaccio, in una morsa gelida che i minatori sentono pesante all’uscita dai tunnel, dopo un turno di lavoro fatto di oscurità, umido e acquoso stillicidio. Dentro, giù nel fondo, il cielo è una volta di pietra senza stelle. Fuori il sole basso dell’inverno indora la cuspide del Mangart ma è calore riflesso in un’idea che, di fatto, gela nell’indefinita nuvola di vapore di un respiro.
Nei lunghi turni in galleria, l’olfatto si fa senso primo e vigile quando gli altri ti abbandonano.
Il tatto è sfiancato da un lavoro troppo duro tra trivelle, mazze e picconi. Si fa vescica, tagli e callo vivo. Il tatto lo vorresti perdere.
La vista, quasi inutile. Come le talpe cieche anche i minatori ne dimenticano l’essenzialità. Gli occhi si fanno fessure da proteggere mentre le schegge di roccia impazzite schizzano via dalla punta della trivella che reggi in mano.
Il gusto trasmette sapori sporchi, essenze di terra e polvere, di marcio e sudore.
L’udito è addormentato ed assopito, dietro ad un paio di cuffie se va bene, dentro i martellanti colpi delle punte d’acciaio o nello scoppio dell’ennesima mina del turno B.
E poi c’è l’olfatto.
Ci sono il puzzo della polvere da sparo e l’afrore dei compagni sudati. Tutto lì sotto è sudato, madido, grondante. Le pareti, il soffitto piange lacrime in continuazione come fosse la montagna stessa che, bucata, si addolora. Si cammina su poltiglia di pietra e fango, pure quella di un fetore nauseabondo che nelle ore di lavoro ti entra dentro dalle narici come un cavallo di Troia e nella notte si ripresenta a cullare i tuoi incubi. Ma in mezzo a tanto ribrezzo, a volte, il mondo del fuori arriva sulla nota di legno bruciato che sa di casa. È il fumo che avviluppa Cave nelle sere d’inverno, quando il clima rigido delle giornate troppo corte fa ghiacciare il Rio del Lago e fumare quello delle cascate che scende dalla cima del Razor.
L’acqua che fuma è un prodigio, non fosse per quel dannato freddo. Fumano anche i grandi comignoli che spuntano come gargoyles dai palazzoni dei minatori. Talvolta, in alcune giornate, la nebbia avviluppa questo spazio d’umanità rubato a boschi e rocce a tal punto che quasi non si vede l’ingresso del mostro sotterraneo, lassù a poche centinaia di metri. E tu, minatore che ti accingi a scendere sempre più giù nel cuore della terra, respiri a pieni polmoni quell’aroma che sa di casa, di caldo, di legna, di boschi e cieli limpidi perché il fumo sta nel Mondo dell’esterno dove non c’è da scavare né da sudare ma da stringere forte tua moglie, o bere un rosso con gli amici di sempre all’osteria. Ogni volta, prima di scendere i livelli, respiri a pieni polmoni quel profumo dei piccoli incendi domestici che ti fa star bene. Con un po’ di fortuna il tuo turno sarà giù al primo piano e lì allora, per qualche misteriosa corrente d’aria, una traccia fumosa raggiungerà le tue narici proiettandoti fuori da quella cupezza sotterranea, a casa tua, nel tepore di una stanza rischiarata dal calore della stufa a legna.
Oggi Cave prospetta al cielo i resti dei tempi che furono. Da qualche decennio le talpe umane non grattano più le profondità della montagna, le trivelle tacciono arrugginite in una delle tante gallerie secondarie. Il formicaio ha chiuso gli accessi alle sue stanze più profonde e anche l’ultima luce frontale sul casco è stata spenta per sempre. Fermi nella loro mole restano i grandi condomini dei minatori, alveari di cemento e pietra, lascito di quell’epoca d’oro in cui la miniera dava da vivere all’intero paese e garantiva una tranquillità di ritmi scanditi dal lavoro sotterraneo.

Gennaio 2021
Trascorro le mie giornate in Val Saisera, a servizio di quelle linee bianche che varcano boschi e torrenti e di chi, su aste di legno, percorre questi spazi veloce e silenzioso. Sto poco oltre l’abitato di Valbruna in una casetta di legno ricavata da un gazebo, proprio all’imbocco della valle dove la temperatura che mi accompagna giungendo dal sud crolla e le terre cominciano a farsi alte. Le mie giornate passano alle radici dello Schwarzenberg, cima secondaria coperta di pini, tra domeniche in cui la folla di città prende d’assalto questi spazi esili, riempiendoli e tracimando verso valle, e spazi di sole e rocce che vivo nella solitudine più completa. Complice un virus che la società ricorderà per lungo tempo, sono un residente atipico e pro tempore in questo inverno che rammenta, in verità, quelli dei tempi andati, quando i rigagnoli d’acqua delle montagne fumavano nell’atmosfera tersa e secca di mattine troppo fredde e le stufe delle case garantivano quel conforto che sapeva di caldo abbraccio.
Capito in Saisera nell’inverno più ricco di neve degli ultimi anni, non passa giornata senza che milioni di dendriti bianchi cadano dal cielo, ricoprendo – puntualmente – quanto liberato con il largo badile solo il giorno precedente. Nelle meste feste natalizie la neve continua a cadere copiosa ed è per me il regalo più gradito. Dicono che a memoria una cosa del genere non si sia mai vista. Nevica a tratti, a volte scende fitta mentre altre, quando è troppo freddo anche per i fiocchi, è sottile e leggera, impalpabile come talco e rarefatta come l’essenza delle nuvole. È strano pensare che la neve odi il troppo freddo ma è uno dei suoi peggiori nemici.
Le precipitazioni di susseguono senza soluzione di continuità, è così che mi inoltro nel 2021 carico di speranza e voglia di cambiamento verso questa pandemia e nel mezzo di una natura che s’è fatta candida in maniera predominante. La neve ha coperto tutto con uno spesso strato bianco; ci sono tetti da liberare per potersi muovere ma non c’è più spazio per ammassarla. Tutto è bianco e nel candore le distanze si assottigliano e si ingigantiscono a dismisura.
Anche gli animali del bosco sono sbigottiti, gli scorsi inverni addomesticati hanno fatto dimenticare loro il significato del termine sopravvivenza. Ma l’istinto è una fiamma che non si spegne così facilmente e vedo camosci e cervi raspare il terreno a non più di cinquanta metri dalla mia postazione ogni dì. Porto loro fieno odoroso e pane secco raffermo, un piccolo aiuto per questi miei amici inizialmente diffidenti ma che hanno capito che da me non devono temere nulla di cattivo. I cervi, grossi e tozzi, affondano con la loro mole nella coltre, avanzano a stento sfiniti. Il camoscio sta la notte nella grotta alla base di una breve parete verticale. L’ho visto più volte sporgere il musetto bicolore e le sue corna ricurve dall’antro e ritirarsi con un’espressione del tipo “ma nevica anche oggi??”. Se ne sta all’asciutto ed esce solo quando in quelle sporadiche giornate i raggi del sole mattutini colpiscono le brecce orientali dello Schwarzenberg. Allora crea sentieri bianchi che spariranno a primavera, cerca le pendenze perché sa che liberare l’erba sotterrata lì sarà meno faticoso. Poi si arrampica con le sole zampe anteriori su dei piccoli arbusti spogli che assaggia per ore masticandone le cime. Tra una spalata di neve e l’altra non posso far altro che gettare uno sguardo su nel bosco, incontrandone le sagome scure sempre indaffarate nell’arte della sopravvivenza.
L’inverno in Saisera, nelle giornate di solitudine, è lucente e inodore. Quando nevica non esistono fragranze, non sento la pece degli abeti che mi circondano né quel profumo che ha la buona umidità del sottobosco d’autunno con note di fungo e muschio. Non sento l’essenza dei fili d’erba dell’estate mentre sbattono al sole, né il profumo dei botton d’oro di maggio.
Il freddo non ha odore. Pizzica il naso come a prendersene gioco, cela indizi e sentori. Ma c’è qualcosa che sa di buono. A volte lo capto già sul ponticello del canale Klinker, dopo chilometri percorsi nel bianco fermo dell’alta Saisera. È l’accenno di un calore che sento quando transito a fine giornata nei pressi dei prati Oitzinger, un effluvio di legna bruciata che mi trasporta immediato nella dimensione domestica di quel nido bianco che è la casa di Renata e Luciano.
Passando nei pressi dell’edificio con la mia motoslitta è chiaro e lampante ai miei sensi che la casa non è vuota seppur le imposte siano sbarrate, che in quell’angolo sperduto della valle alpina c’è una famiglia che convive con l’inverno e i suoi rigori.
Sono diventato a mio modo minatore, come le talpe di Raibl, meno in profondità e più in superficie. La neve troppo alta mi costringe a scavare tunnel bianchi nella consapevolezza che i miei sforzi non porteranno a nulla, non troverò gemme o minerali preziosi nella mia opera. I vecchi dicevano che palare neve è un lavoro inutile. Sono un minatore bianco, come un bostrico scavo sentieri sotto la corteccia del ghiaccio costruendo la mia rete di passaggi bianchi. E come i minatori di Raibl quel profumo di fuoco mi colpisce e mi travolge proiettandomi all’interno di quell’edificio che sta al limitare del bosco bianco e che cova nell’interno braci calde di umanità e tepore familiare. La mia seconda casa per qualche ora al giorno.

In Austria nella costruzione dei masi alpini si seguono regole ferree: prima il caldo, poi gli animali, poi il resto. Le case hanno un nucleo di mattone refrattario e calce. La stube è il cuore dell’edificio, è centro della famiglia che si ritrova nelle ore dedicate alle pause dal lavoro agricolo, è riposo e pianificazione del futuro, è racconto che tramanda come lo erano i fogolars carnici nelle case dei miei avi. E come una volta, al centro della casa dei Piussi, c’è una stufa che stube non è ma che affascina con le sue finiture lise dal tempo.
È una vecchia stufa arcigna, un blocco di ferro con piccoli bocchettoni grigi forati che facilitano la circolazione del tepore. I piccoli piedini d’acciaio ne sostengono la struttura stretta che termina verso l’alto con il tubo metallico che si getta nel camino, dietro ad una vecchia parete di pietre portanti.
Leggo la targa, incuriosito da quell’elemento così caratteristico della sala da pranzo. Il calore prodotto basta a riscaldare per intero il grande ambiente che giornalmente accoglie turisti e viandanti ed è un vero affronto alle moderne tecnologie del riscaldamento “ad alta efficienza energetica”, come in voga definito. La sbiadita targa riporta ancora la scritta ZEPHIR – IMAR – BREVETTO, ma lo stato in cui versa denota l’età centenaria del caldo manufatto.
Luciano mi guarda curioso, capisce il mio interesse verso quella stufa e mi rende partecipe di una storia incredibile …
Negli anni 50 una profonda crisi investe la miniera di Cave, passata nelle mani della Soc. Mineraria Metallurgica di Pertusola, dopo i fasti della gestione precedente, dove l’ingegnere Nogara ancora è ricordato come benefattore dalle genti del paese. La situazione è grave: costi estrattivi sempre più alti e flessione del mercato portano inevitabilmente a scioperi e forti licenziamenti tra i minatori. I grandi casermoni, da alveari brulicanti di vita, si trasformano man mano in vuoti scheletri silenti, abbandonati per sempre da chi parte e non torna. Le persone fuggono da Cave, alla ricerca di una vita più facile e meno perigliosa. È in uno di quegli anni a venire che l’allora giovane Luciano capita in paese assieme ad altri personaggi del tarvisiano. Sono da liberare i condomini, forse arriverà nuova linfa umana, si dice che la Mineraria Metallurgica Italiana promette nuovo benessere, modernità, agio. È allora che Piussi e i suoi amici, di gran lena e da uomini tirati su nella miseria, cominciano un’opera di recupero che ha dell’incredibile. Il grosso è già stato portato via dai precedenti inquilini ma alcune delle stufe, quelle pesanti e grosse scatole di ferro, sopravvivono all’interno degli alloggi sfitti o nella soffitta dei condomini, soppiantate dal moderno riscaldamento centralizzato ad olio pesante, riempite di cianfrusaglie varie dalle donne come fossero armadi qualsiasi o, peggio ancora, bidoni della spazzatura. Due giornate di duro lavoro, una stufa alla volta, dal quarto piano scendono a terra per salire sul rimorchio trainato dal trattore, per un viaggio di sola andata che le porterà lontano dall’orco della miniera, in quel garage della casa di Valbruna e verso molte altre destinazioni.
Quella che ho davanti è l’ultima sopravvissuta di una stirpe di stufe costruite quando Cave ancora si chiamava Raibl. Funzionante mentre gli shuzten passavano la galleria di Bretto o l’ingegner Nogara assumeva centinaia di soldati italiani nella seconda guerra facendoli passare agli occhi dei nazisti come semplici minatori.
Per il fuoco spentosi a Cave del Predil ce n’è un altro che ancora oggi si accende ogni giorno all’agriturismo prati Oitzinger, dove Renata, Luciano, Marisa e tutta la famiglia tengono in vita il ricordo di una delle tante storie di queste montagne.
Accendono quell’abbraccio caldo che è a disposizione di tutti, varcando la soglia di quel nido bianco al limitare del bosco, nella silenziosa e spettacolare Val Saisera.

Molto coinvolgente,interessanti queste “storie minime”che andrebbero cercate e raccontate.Bello!
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Grazie Sav, nel mio piccolo – quando mi capitano a tiro – cerco di non lasciarle scomparire…
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Bellissimo racconto! Omarut,”ragazzo di altri tempi” di cultura e sensibilità unici. Ho avuto modo di conoscerlo di persona, in Val Saisera, sempre pacato, di piacevole conversazione, con il sorriso sempre presente, con un occhio puntato alla montagna vicina, dove ci sono gli animali del bosco, gli amici camosci a cui si cerca di portare conforto. Ho iniziato a leggere con molto piacere i suoi articoli, tutti molto coinvolgenti e … iniziando a conoscere un pochino, in modo embrionale ma con immensa curiosità, i luoghi e le persone da lui descritti, in questo momento storico particolare, mi fanno piacevolmente sognare un mondo diverso, pulito, sincero, quale lo è la montagna…, la sua gente,… i suoi luoghi…. Omarut
grazie di cuore,
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Grazie Donatella, troppo buona
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E’ sempre un piacere leggerti!
Mandi
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Grazie walker 😉
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Scrive Marisa – “Buonasera, volevo farle i complimenti per quel bellissimo pezzo “la stufa di Raibl” che ho visto nel gruppo “Gli amici di Riofreddo”.
Io ho 56 anni e ho vissuto i primi 8 anni della mia vita a Cave del Predil e sia mio nonno che mio padre hanno lavorato nella miniera e nella laveria di Cave del Predil.
Anch’io e la mia famiglia facciamo parte di quella storia.
Ora vivo a Camporosso (Saifnitz, Žabnice) altro paese della Valcanale pieno di tradizioni e ovviamente conosco Val Saisera.
Mi ha fatto molto piacere leggere le sue righe e ritrovarmi anch’io in quegli ambienti, a me assolutamente conosciuti (i miei nonni paterni abitavano in uno di quei casoni e io ho passato un po’ di tempo dai nonni).
La ringrazio e La saluto.”
Ovviamente non può che farmi piacere un commento del genere.. Grazie!
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Bel racconto!
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Grazie 😉
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Molto bello, grazie 🙏
Ho lasciato Cave 50 anni fa, ma l’identità “cavese” è sempre presente. La vita era dura, ma la varietà della popolazione, ci dava un’aria quasi… cittadina. Avevamo molti punti di aggregazione, oratori, bar, cinema. Il mitico Enal, ora semi diroccato, oltre ad essere circolo operaio, faceva cinema ogni sera, teatro e feste danzanti più volte l’anno.
Il tuo scritto ha risvegliato ricordi meravigliosi, ancora grazie ❣️
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