Se ripenso a questi due giorni vissuti lassù, la prima cosa che mi passa per la testa è, sicuramente, la roccia.
Il gruppo del monte Canin è un enorme blocco di pietra e questa compattezza che lo rende arcigno si scorge già da lontano. Che tu lo guardi dalle cime delle Dolomiti Pesarine, da quelle delle Prealpi o dalle vette carniche più alte. Sta là. Nella sua severità regale, spesso ammantato di bianco quando le altre cime sono già verdi e fiorite col tepore della primavera.
Quella del Robòn è una cima che non cerca i riflettori. Si innalza, di poche decine di metri da una valletta secondaria, dove i sentieri che passano sono solo due, tendenzialmente poco frequentati. Lontana dal mondo del Canin, dalle piste invernali, dal rifugio Gilberti e dalla comodità degli impianti di risalita.
Lontana dagli agi del fondovalle, dalle strade. Lontana dal chiasso. Insomma, parrebbe lontana da qualsiasi cosa.

E’ con entusiasmo che accolgo la proposta di Marco di andare sul Robòn per una notte. C’è un bivacco lassù, ben nascosto dalle quinte di roccia, che spicca con il suo colore rosso vivo solo se ti alzi verso il monte Cergnala. Altrimenti non lo vedi.
Il Modonutti-Savoia potrebbe essere definito come un nido d’aquila per quei pochi che passano di là; o un “nido” per le talpe che si inabissano nel ventre della terra. Il rosso ricovero è di quelli destinati agli speleologi, perchè lassù il mondo del sotto è spesso più esteso di quello del sopra.
Una magia che regna in queste terre alte e che trova un labile equilibrio tra le rocce carsiche di quell’enorme blocco che è il gruppo del Canin, che visto da occhi esperti, in profondità, rassomiglia – in verità – ad un gruviera. Là sotto ci sono grotte, cunicoli, passaggi nascosti alla vista. Si capisce mentre sali lungo il sentiero 637. Ad un tratto di bosco ripido, dove i bitorzoli dei faggi lasciano spazio a graziosi larici, si frappone la prepotenza di quinte grigie. La roccia è la protagonista, ma la sceneggiatura prevede un’altra attrice: l’acqua, in ogni sua forma. Perchè in questo regno di elementi la neve, il ghiaccio e l’acqua contribuiscono alla stessa maniera a formare una magia cristallizzata.
Più salgo e più mi rendo conto che le forze della natura sono incredibili scultrici, artiste che non smettono mai di plasmare, sottrarre, spostare, approfondire.
Nella faticosa salita verso il circo del Robòn la prima sensazione di incredulità arriva guardando le pareti settentrionali del Col Lopic. Sarà che sono un arrampicatore e la roccia mi manda in estasi. Ma qua c’è qualcosa di più. Lo capisco mentre guardo ammirato pareti levigate, piegate con una curva sinuosa verso il basso. Ci sono piccoli antri e grosse fenditure che disegnano uno strano dedalo ipogeo su queste pareti. Capita che ti arrivi il soffio della terra se esci dal sentiero, nei pressi del Pian de le Lope. Un respiro freddo e inodore. Le cavità quassù comunicano tra di loro e dagli ingressi, per una magica teoria, spira il brivido del sottosuolo.
Riprendiamo a salire. Sono le pareti del Robòn ora lo spettacolo più vicino. In una linea verticale che mi pare la più accessibile per una scalata, un cordino penzola nel vuoto, sopra ad una fila di spit piuttosto vecchiotti. Ne immagino le difficoltà, basta guardare a quanto sia liscia la parete per capire come sia una scalata riservata a pochi.

Sbuchiamo in una spianata ghiaiosa. Sembra un altro mondo dopo i boschi della parte bassa. Una quinta di pietre stondate serba il segreto di questa conca, dividendo il mondo del basso dal mondo di pietra del Robòn.
La sella non è troppo lontana; lì passa il confine con la Slovenia. Scruto cime, mentre cammino, che non avevo mai visto prima. Percorro cenge con la curiosità, cavalco le dorsali dribblando camosci che ci guardano dalla cima. Il sentiero si rialza verso la sella e prosegue a pochi passi dalla displuviale, tra i resti delle postazioni dell’esercito italiano. Il bivacco si svela all’ultimo. Sta nella sua culla di roccia, protetto dai venti in una piccola conca.
Lasciamo il materiale in surplus e ripartiamo esplorando i dintorni. La prima linee correva e corre ancora ad un passo dal bivacco. Interseca foibe, enormi inghiottitoi dal fondo oscuro e a volte il fondo non si intuisce neppure. Siamo oltre il sentiero e oltre passi già percorsi da altri e la cosa mi piace parecchio. Il mio mestiere ormai è quello di seguire sentieri e avere la possibilità di inventare la mia via ha qualcosa di sacro.
I mughi stanno in bilico sugli abissi che elegantemente sfioriamo in equilibrio su rocce millenarie. Sono dure e rugose, dove l’acqua ha scavato i campi solcati superficiali si creano appigli stupendi per arrampicate di pochi metri. Roccia come carta vetrata che abrade le suole degli scarponi ma offre sicurezza nell’incedere.
Le decine di inghiottitoi sono per lo più catalogati dagli speleologi friulani. Targhette o scritte riferiscono il mondo del sotto sugli archivi on line della regione. Ma le spaccature senza fondo sono talmente numerose che molte non hanno alcuna scritta, specie mentre ci stiamo allontanando sempre più dall’ultimo segno della civiltà.
Raggiungiamo per vie semisconosciute la cima del Robòn alto. Non è altro che un ammasso di sassi sopra ad altri sassi, ma una croce di filo spinato indica chiaramente che queste rocce hanno visto centinaia di soldati. Ne portano il ricordo nei numerosi resti ferrosi sparsi a terra, in qualche ponticello di legno che ancora sta sui baratri degli abissi a facilitare il passo o nei segni delle esplosioni delle granate sulle lavagne calcaree. Ma ci vuole occhio per riconoscere queste cose.
L’intento di raggiungere il Robòn basso vacilla in breve. Affacciarsi sul mare di pietre smosse, percorse da un lungo reticolato, e vedere l’orizzonte rieccheggiare come una scossa sismica ci scoraggia. Ma non demordiamo e procediamo in un incredibile dedalo pietrificato, valicando decine di pareti ed inabissandoci sul fondo di enormi ferite rocciose. Sbagliamo più volte strada. Rialziamo la testa al sole e torniamo in profondità, a vedere da vicino come la natura lavora incessante le sue viscere. Di qua non passano nemmeno i camosci. All’ennesima risalita, con qualche passo più deciso di arrampicata, capiamo che quella cima ci sta prendendo in giro e che non la raggiungeremo mai.
Non c’è una goccia d’acqua, ovviamente, e il sole batte ancora forte.
Raggiungiamo nuovamente il bivacco lungo l’accennato sentiero di guerra, tutt’altro che un elementare percorso.
La notte cala dal Cergnala, le ultime sagome che vedo sono quelle di camosci che dall’alto vigilano chi sia venuto a turbare questo angolo pietrificato.
La notte in bivacco ha sempre qualcosa di magico e avvolti dal silenzio piacevolmente stantio di questa zona dimenticata, spegniamo le nostre fatiche quotidiane sulle brande del Modonutti.




Un’alba altrettanto silente ci sveglia. Bussa da fuori la luce calda che si riverbera sul Cergnala.
Oggi si va verso lo Spicek, piccola cima che giace sotto alla cuspide della Cima Confine.
Saliamo per un sentiero di guerra di cui, oramai, resta solo una leggera parvenza tra le ghiaie cadute e qualche tratto di erba più vigoroso. Anche qui diversi ponti posati dal genio non esistono più e ci dobbiamo inventare passi cauti tra pietre non sempre salde.
Il versante presenta una terrazza a metà altezza di bianco e verde colorata. Verso la Slovenia si propendono centinaia di metri di trincee scavate, con i loro sassi caduti. Con i loro ricordi fatti di chiodi, di legni che perdurano senza marcire, con nastri di mitragliatrice ed un cucchiaio. Chissà come doveva essere mangiare quassù, con il fumo delle stufe portatili a sopperire al calore di una casa quasi sempre lontana.
Guardo da una feritoia. All’orizzonte ci sono le cime della Mogenza Piccola e della Mogenza Grande. C’è la stretta valle della Moznica che scende verso Bovec e verso terre contese e mai scontate.
Sono rimasto solo, ho preferito così.
Vagare senza tempo e senza parole mi permette un esame attento di un angolo di montagna che vorrei conoscere nella sua essenza.
A breve distanza i resti di una teleferica testimoniano l’aggrappamento ai versanti delle truppe. C’era da tirar su materiale di ogni genere, su fino ai vertici alti, agli osservatori. Oggi restano putrelle di acciaio, bombe a mano e qualche ingegnoso manufatto. Trovo una pala artigianale, penso che la neve da palare cent’anni fa doveva essere parecchia e le attrezzature scarse.
Vago con la piacevole sensazione del fresco che il grosso nevaio mi trasmette, mentre il sole non smette di picchiare dall’alto di un cielo blu di fine agosto.
E’ tempo di scendere. Lascio quassù il ricordo di un mondo di pietre e silenzio. Nella stagnante tranquillità di elementi che portano avanti progetti molto più grandi e complessi di noi.




Info utili: La cima del Monte Robòn Alto risulta raggiungibile in due maniere principali. La prima, descritta nell’articolo, avviene seguendo il sentiero CAI 637 che parte poco oltre la località di Sella Nevea, nei pressi di un largo spiazzo ghiaioso sulla destra (quota 1200m). Percorso mediamente verticale con sviluppo nel bosco per una prima parte e lungo i numerosi saliscendi della seconda fino al catino sotto alla cima del Robon. Raggiunta l’aerea Sella Robon a 1865m, seguendo lo stretto sentiero sulla sinistra, tra i resti delle opere militari, si raggiunge il Bivacco Modonutti-Savoia a 1908m dove sulla sinistra, in maniera poco netta, parte la traccia di guerra che porta alla sommità del Robòn Alto a 1974m (la cima vera e propria di 1981m risulta difficilmente raggiungibile). Dal parcheggio alla cima 3.45h, dislivello complessivo 800m circa.
Alla Sella Robon è possibile arrivare anche attraverso il sentiero 636 (mulattiera del Poviz) partendo nei pressi dello skilift di Sella Nevea, nei pressi della vecchia partenza della cabinovia. In questo caso il percorso comporta 2 ore per raggiungere l’altopiano del Poviz e un’altra ora per raggiungere la Sella Robon. Tempo totale 4.15 alla cima, dislivello complessivo 900m circa.
In entrambi i casi le difficoltà si mantengono escursionistiche E fino al bivacco per crescere ad Escursionistiche per Esperti nel tratto finale verso la cima. La parte finale del percorso va evitata in caso di nebbia per il dedalo di inghiottitoi e l’assenza di segnaletica.
Le numerose iscrizioni e i graffiti rilevati dall’amico storico Marco Pascoli sono documentate sul sito http://www.graffitidiguerra.it che consiglio di visitare!
Vuoi percorrere questa escursione in mia compagnia? Contattami in privato per un preventivo. Affidarsi ad una guida certificata è la migliore maniera per vivere la montagna, conoscendola a fondo, con la consapevolezza di essere in ottime mani.



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