08.05.2014
Quantomeno di stucco. Incredibile.
Avere tra le mani un pezzo di storia della mia famiglia, ricomparso dal nulla o dal dimenticatoio ad almeno 50 anni di distanza, mi lascia esterrefatto.
Non che abbia avuto a che fare in precedenza con questo oggetto, ma di sicuro mio padre o mio nonno, se non addiruttra il mio bisavolo, loro si.
Posso solo ipotizzare quanto successo, fantasticare di un momento e un luogo che non ho mai vissuto, immaginare come ai tempi doveva essere quello che oggi non c’è più, scrutando tra i suoi resti arrugginiti. Non ho altro ed è quel che basta.
Tempi andati di miserie e semplicità. Giornate scandite dalla vita all’aria aperta tra la magra agricoltura delle alture Carniche e l’allevamento di quelle quattro bestie che garantivano il sostentamento delle famiglie in paese, quelle si più sacre dei santi. Con quelle almeno si mangiava.
Lunas è una località che ancora c’è sopra all’abitato di Muina, piccolo borgo montano nel comune di Ovaro. A Muina è nata mia mamma, in una casa che guarda ancora la chiesa e il suo tozzo campanile, fulcro e centro di quelle anime sparute. Mio padre nacque e visse gran parte della gioventù poco sotto, al limitare del torrente Degano che regalava trote in giardino durante le alluvioni o faceva da parco giochi con le sue acque talmente pulite che ci sguazzavano le lontre. A Muina è nato il loro amore, nei tempi andati, poi sono venuto io. Figlio, come tanti altri, di gente che abbandona la montagna in cerca di qualcosa di meglio. Ma questa è un’altra storia, altre vicende di vita.. Il paese di Muina vantava 420 abitanti, ora sono rimasti un centinaio si e no, in continua diminuzione per giovani che se ne vanno e vecchi che hanno speso il tempo previsto.
Ai tempi della gioventù dei miei c’era ancora l’usanza dell’alpeggio, la tradizione di portar le bestie a pascolare dove l’erba era migliore. La sapevano lunga quella volta, si avvicinavano al “meglio” alzandosi di quota, attorno a settembre quando le bestie rientravano dagli alpeggi alpini. Ogni famiglia, chi più chi meno, aveva un fienile in qualche praticello sperduto sulle montagne sovrastanti il paese. Lì si portavano le bestie per avvicinarle ai pascoli. Il fienile sopra alla stanza dove stavano le mucche, era sempre straripante di fieno odoroso stipato per la stagione invernale. Adesso ci fanno i bagni, i bagni con le erbe alpine nelle SPA, e costano anche parecchio.
Mi affaccio con la fantasia in quel fienile. La stanza è scura e odora di letame. Quattro o cinque mucche sono legate alla traseiv (lunghe aste di larice) e ruminano in pace. A terra la pulizia è maniacale e il pavimento, dalle grosse pietre levigate, luccica in sottofondo alla luce della lampada. Uno strato di foglie secche di faggio ricopre gran parte dell’acciottolato, da cambiare a cadenza stabilita o ad imbrattamento avvenuto.
In ottobre nascono i vitelli, niente gravidanze programmate ma solo il normale scorrere della natura. Manca poco all’inverno qui, di quelli freddi che mordono le chiappe, le case non hanno l’impianto termico ma solamente un fogolar che affumica tutto con le sue basse fiamme, dalle pareti alle ricotte, ai volti dei vecchi che in un angolo, silenti, scrutano le braci in cerca di chissà quale segreto.
Capita durante uno degli ultimi giorni d’autunno, quando i primi fiocchi bianchi cominciano a cadere sui prati infreddoliti e giallognoli di Lunas. Mio nonno Duilio, salito allo stavolo per le ultime faccende, prima di coricarsi sul materasso di foglie di pannocchie, esce nel piccolo praticello esterno dove giace una minuta catasta di legna d’abete per ravvivare il fuoco. La appoggia un’attimo, anzi, la appende al solito chiodo arrugginito infisso nel tronco del vecchio sambuco. Si carica in braccio tre grossi pezzi di legno e rientra, infreddolito, alla fioca luce della lampada a petrolio che brilla all’interno nel tepore della costruzione. La notte passa tranquilla, quassù il sonno è di quelli pesanti. I rumori sono pochi se si esclude il canto notturno di civette e gufi.
La mattina è tutto bianco e continua a nevicare, meglio sbrigarsi o rientrare a valle potrebbe diventare un problema. Caricati quei pochi averi, sopra ad un grosso covone di fieno da divallare, il nonno prende la via del paese davanti alla sua olgia, la grossa slitta di legno usata per il trasporto del fieno e delle legna. Un mezzo a trazione unicamente umana..

L’inverno trascorre. I rami cadono. Le gemme crescono. Le stagioni passano.
La lampada è sempre lì, sempre meno visibile, sotto all’albero di sambuco che si fa via via più vigoroso e grosso.
Il progresso si porta avanti, i modi di vivere cambiano e gli stavoli sui monti cominciano ad esser lasciati al loro destino. I prati di Lunas cominciano ad essere invasi dalla vegetazione pioniera, poi da arbusti più scontrosi e quindi da alberi sempre più rigogliosi ed alti. La gente non falcia più questi ripidi pendii, le stalle sono vuote perché il latte, adesso, si compra al negozio di alimentari della cooperativa di paese.
La malora dilaga.
Neppure la trasformazione del vecchio sentiero che guida agli stavoli in strada sterrata salva questi luoghi, sempre più dimenticati da Dio e dagli uomini. Solo l’incuria e i tarli sanno benissimo il loro fatto e lo stavolo ne paga le conseguenze. Dapprima qualche infiltrazione dalla copertura. Poi si stacca un pezzo di tavolato del paramento, le prime marcescenze… E quello che decenni prima fu costruito col sudore, viene ora distrutto dal gesto ripetuto sulla manovella del tirfor in 30 minuti. “Stavolo pericolante, meglio tirarlo giù” è stata la sentenza dei miei parenti.
Il sambuco vede tutto, è invecchiato pure lui, ne ha viste di vicende quassù.. Eppure la caduta del suo amico stavolo gli fa male, lo indebolisce dall’interno. Si tenevano compagnia da decenni. La pianta affondava le sue radici al di sotto della costruzione in un moto di abbraccio grazioso.
Sarà l’inverno di quest’anno, quello del 2014, a dargli la spallata finale, a fiaccare le sue fibre definitivamente.
Sarà il caso che porterà mio padre ancora una volta in Lunas, in pellegrinaggio ai resti dello stavolo dove 50 anni prima dormiva assieme a mio nonno e i suoi fratelli.
Era lì, mimetizzata dalla ruggine a guisa di legno, alla radice di una biforcazione dei due rami più grossi del vecchio sambuco. Inglobata nelle fibre, digerita nelle viscere della pianta. Basterà una spinta al legno a liberarla da un sonno durato mezzo secolo.
Dormiva cullata dall’albero, al riparo da tutto quello che succedeva all’esterno, che in verità quassù non è molto se non il susseguirsi delle giornate e delle stagioni.
Ora è qua davanti a me, sul tavolo del salotto. Piuttosto malconcia eppure porta in sé un fascino enorme. Una vecchia lampada a carburo appartenuta alla mia famiglia è tornata alla luce, tre o quattro generazioni dopo l’ultima sua accensione. Il sambuco ha funto da uovo, da culla, da capsula temporale.
Grazie sambuco di Lunas, ti devo un sorriso e queste riflessioni. Hai saputo preservare meglio degli uomini la memoria di quello che fu, in piccola parte, anche la mia storia.
E mandi Duilio..

Eeeeh, ma ce biel, Omarut! Complimenti!
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