22.11.2015
E mentre Attila, la perturbazione dal nome evocativo, apporta i primi freddi ad una stagione autunnale che ha avuto oltremodo clemenza nei nostri confronti, assieme ai miei amici di ventura odierna risalgo i versanti boscosi di una montagna che non trova collocazione alcuna nella mia mappa personale. Le parche indicazioni fornite dai conoscenti si limitano ad una cima dal nome germanofono nei pressi dello Scinauz che conosco solo per sentito dire e per averlo guardato dal basso chiedendomi come doveva essere vivere lassù per i militari della NATO che fino a pochi anni fa rendevano operativo il sistema Radar installato sulla sua cima. Ghisniz non mi diceva nulla e continua a non evocare immagini anche adesso che stiamo risalendo i suoi fianchi.
Siamo appena partiti dal minuto borgo di Santa Caterina e di preciso so solo che il dislivello positivo da percorrere sarà attorno ai 1300m. Una bella camminata resa sicuramente più interessante dalla presenza della prima neve a terra. L’abbiamo attesa tanto, speriamo che quella caduta nella notte sia solo l’incipit di una ricca stagione bianca.
Abbiamo oltrepassato un ometto di pietre bianche oltre il fiumiciattolo d’acqua. E’ qui che comincia la salita. Segna l’ingresso nel regno dell’incerto e del vago. Apprendo stupito che oggi non troveremo un sentiero CAI da seguire per giungere alla vetta bensì tracce e vecchi percorsi della prima guerra mondiale.
Sono strani contrasti quelli incontriamo salendo la pineta e il successivo versante di vecchi faggi. La coltre nevosa va aumentando man mano che saliamo di quota e tutt’attorno sbucano un po’ ovunque bassi fiori grassottelli dallo stelo verde che più verde non si può. Hanno una corolla bianca leggermente appassita dal gelo. Sono gobbi per il peso dei fiocchi di neve eppur ancora carichi di una strana voglia di farsi notare, un po’ fuori stagione però!
Saliamo veloci guidati da Piter che conosce il tragitto avendolo già affrontato 3 volte. Medito quindi che il percorso e la cima riserveranno belle soprese se l’amico ha tanta voglia di tornarci. Eppure più su il dubbio che Piter abbia “perso la trebisonda” è oltremodo persistente nei nostri dialoghi e le prime colorite bestemmie escono dalle labbra di alcuni componente del gruppo.
Se fin’ora il sedime del percorso era piuttosto ancora evidente, quantomeno ad un occhio mediamente allenato, da qua in poi è terreno di avventura e quello che ci guida è soprattutto l’intuito, unito ad una buona dose di “fondoschiena”.
Sugli alberi più datati qualcuno si prese la briga di segnalare la retta via intagliando le cortecce con delle grosse X che tuttavia, immagino almeno trent’anni dopo la loro incisione, paiono più dei vecchi licheni che dei segnavia.
A volte qualche sbiadito bollo rosso fa capolino sui tronchi, ma è talmente mimetizzato che si perde nell’uniformità delle fronde circostanti. Sempre ad intuito procediamo seguendo gli spazi più aperti del bosco guadagnando quota fino ai 1300m dove si raggiunge una specie di pulpito boscoso con vista sulla sottostante vallata fin giù al paese di Pontebba. Il sito doveva essere un’interessante punto d’avvistamento anche 100 anni or sono perché si rinvengono ancora, con un minimo di attenzione, i resti delle vecchie trincee austroungariche.


Poco oltre una forcella invasa dai mughi è il momento di salire un canale di rocce rotte e alcune cenge dove ancora restano infisse le opere dei soldati della grande guerra. Le usiamo anche noi oggi, cent’anni dopo ci ancoriamo agli stessi fittoni di ferro battuto.
Seppur la frequentazione di questo itinerario sia minima, qualche buontempone ha trovato il tempo di mettere lungo il percorso un segnavia CAI che reca impresso ancora il numero del sentiero d’origine: 403.
Il 403 è “delle mie parti”, quello che da Cleulis porta a Pramosio. Che ci faccia qui è un bell’interrogativo. Il catalogo degli strani segnavia è ancora pieno di belle sorprese.. Oltre infatti l’occhio dell’escursionista si abituerà a trovare vecchi calzini appesi ai mughi, fettucce rosse, bolli di ogni forma e colore seppur accomunati dallo sbiadimento quasi completo. E continuare, alla fine, sempre sulla retta via ha quasi dell’incredibile.
A quota 1500 assieme a Fulio ci immergiamo nei mughi e, letteralmente sommersi, conveniamo che dobbiamo aver sbagliato qualcosa. La traccia è oltre, fuori da questo groviglio in cui rischiamo ad ogni passo le caviglie, fuori da ramaglie che scaricano nella nostra schiena fastidiose cucchiaiate di neve fresca.
In campo aperto la cima non appare così lontana. Oltre una ripida rampa bianca ed omogenea c’è tuttavia una parete o quantomeno un canale incassato e zeppo di mughi.
La compagnia si sfilaccia, soprattutto negli umori e nelle voglie. L’ultimo tratto lo batterò io sostituendo quel trattore di Fulvio che se l’è fatta in testa da un po’. Ho calzato i ramponi, la pendenza è cresciuta e miro ad aggirare un gendarme di pietra ai cui piedi pare ci sia il passaggio migliore verso i campi aperti superiori.
Piter, il conoscitore, si è fermato più giu e non proseguirà oltre per oggi.
A naso mi pare che questo sia il punto d’arrivo della nostra combriccola. Tanti dubbi e poche certezze.




Troppa neve, canale marcio e poche attrezzature adatte nello zaino ci fanno propendere per fermarci qua. Nonostante tutto Montasio e Jof Fuart si disputano i nostri sguardi, mancano 100m di dislivello alla cima ma l’aria è la stessa, il Ghisniz è sempre lì mentre la pellaccia è una sola.
Con i 4 rimasti non servono altre parole.
Il rientro sarà nuovamente un terno all’otto, fra calzini, fettucce e bolli. Il fattore “fondoschiena” sarà sempre quello, fortunatamente, preponderante!
Omarut, Manuel, Max, Fulvio e Piter

INFO UTILI: L’ascesa qui descritta porta al raggiungimento del Monte Ghisniz, cima dalla quota di poco superiore ai 1900m. L’area ricade all’interno della riserva naturale “Rio Bianco – Cucco” di cui si riporta una descrizione tratta da internet…
L’ambiente è impervio e selvaggio , caratterizzato da pendii scoscesi, ripidi ghiaioni e salti di roccia. Le rocce sono costituite da dolomia, calcari dolomitici e calcari più o meno stratificati. A causa delle difficoltà di accesso, la natura si è mantenuta quasi intatta, costituendo uno degli ambienti più integri delle Alpi orientali. La riserva è inoltre ricca d’acqua, con molte le sorgenti che alimentano il Rio Bianco, formando piccoli ruscelli a cascate.
I pendii della riserva sono ricoperti da boschi pionieri di pino nero e pino silvestre di modesta densità, con fusti contorti e caratterizzati da lento accrescimento. Solo in poche nicchie riparate, con terreno più ricco e profondo, si è insediato il faggio, l’abete rosso e alcune latifoglie.
La fauna si presenta ricca e varia: tra i mammiferi, troviamo il camoscio, il cervo, il capriolo, la volpe, la martora, il tasso, la lepre alpina, lo scoiattolo, il topo selvatico collo giallo, il toporagno comune e quello nano; tra gli uccelli, il gallo cedrone, il fagiano di monte, l’aquila reale, il gufo reale, il grifone, il gheppio), lo sparviero, il corvo imperiale, il sordone, il codirosso spazzacamino, il picchi nero e il picchio tridattilo.
L’area è visitabile con accompagnamento del personale preposto solo per scopi scientifici previa autorizzazione da richiedere all’ Ufficio di Tarvisio.
Percorso di difficile individuazione, privo di segnavia, di tipo escursionistico tranne la percorrenza di un canale roccioso sotto al Monte Pin (passaggi di primo grado con attrezzature vetuste). 2 zone risultano invase dai pini mughi.
Per un’ascesa calcolare almeno 3 ore, dislivello complessivo attorno ai 1300m.
Per tutto quanto sopra riportato, ne sconsiglio la percorrenza per lasciare tranquilli gli animali presenti ed evitare multe da parte del corpi forestale.. Anche se a dire la verità, cartelli di divieto in giro non ce ne sono, altrimenti cambiavo meta!