di Bruna Scjarazule
Non c’ è niente di male a essere nato in pianura. Nulla. A meno che tu non voglia essere nato in
montagna. E’ una sorta di nostalgia atavica che scorre nelle vene di ogni friulano. “Il friulano” animale selvatico in via di estinzione addomesticato – ma non troppo -.
Il “friul-giuliano”, termine che ho inventato giocandomi per sempre l’amicizia e la parentela sia con i
friulani che con i giuliani- soffre di una nostalgia verso la montagna simile a quella verso il ventre materno che da sempre affligge l’essere umano.
Una nostalgia atavica per la montagna, per la roccia, per il “cret”.
Mi sono data una sorta di giustificazione storico-sociale a questa nostalgia.
Il friulano è l’unico ladino che abita anche in pianura. E già questo fa di lui una eccezione nell’eccezione. Tutti gli altri ladini (leggi reto-romanzi) vivono sulle Alpi. I ladini delle valli trentine e dell’Alto Adige e venete (fassani, badiotti, gardenesi, ampezzani e cadorini), i ladini romanci dei Grigioni e i carnici vivono fra le montagne.
Ma la lingua e la cultura ladina in Friuli si bagna i piedi nel Mediterraneo estendendosi fino alla costa
adriatica.

Una sorta di popolo esule dalla sua terra verticale che nei secoli si è abituato – ma non rassegnato- a
vivere guardando un orizzonte piatto.
Certo è un po’ come rovesciare il vaso di Pandora: non è il colono romano che partendo dall’agro
aquilejese portò la sua lingua e la sua cultura nelle valli alpine, fino ai passi verso il Norico, ma è la
cultura alpina che si è appiattita sulla pianura formata dall’antico ghiacciaio tilaventino.
Mi immagino ora i linguisti puri e gli storici inorridire; ma -abbiate pietà- la mia non è una dimensione
linguistica e storiografia ma dell’anima!
D’altronde questi coloni romani, questi centurioni che di romano in verità avevano ben poco perché
provenivano dall’entroterra laziale – erano sanniti, ciociari, insomma-, per fondare la stirpe gallo-romana le donne da qualche parte se le dovevano pur trovare. Certo si parla di coloni con famiglia: gli eserciti e le legioni erano spesso seguiti dalle famiglie dei soldati. Ma la nostra stessa lingua testimonia una fusione e una commistione fra latini e celti che non può essere frutto di un sistema di caste chiuse: dominatori da una parte e servi-schiavi dall’altra.

La nostra lingua e la Storia, parlano di matrimoni e di famiglie “miste” già pochi anni dopo la formazione della Decima Regio. E in famiglia si parla la lingua della madre: la madrelingua, appunto. Attraverso la lingua materna passa un habitus cioè “un sistema di schemi percettivi, di pensiero e di azione acquisiti in maniera duratura e generati da condizioni oggettive, ma che tendono a persistere anche dopo il mutamento di queste condizioni” come diceva Pierre Bourdieu.
L’habitus determina la forma mentis cioè la struttura mentale, il modo di intendere e concepire le cose,
costituita dagli elementi del carattere, dell’educazione ricevuta, dalle convinzioni maturate nel corso
dell’esperienza individuale.
Insomma dalla madre ci si nutre non solo di latte ma anche, attraverso la lingua, di un modo di vedere il mondo e di rapportarsi ad esso. E se i nostri padri erano contadini ciociari trasformati in legionari
dell’Impero le madri erano donne celto-carniche che per amore, per forza o per fame incrociarono il loro DNA con i dominatori ma la cui cultura era quella di montanare dedite ai pascoli e agli dei della natura.
Non è un caso se il cristianesimo penetrò tardi e superficialmente nelle valli e anche nella pianura. A un
popolo silvano e pastorale era più congeniale credere agli dei della terra, degli eventi atmosferici e della montagna che a un Dio unico e lontano.
“Cjargnei cence Diu” si diceva un tempo e forse era nato per indicare la riottosità pagana a farsi
assoggettare a una Chiesa fatta di dogmi e di dazi.
Tutto questo, quest’anima montana e montanara, vive e scorre nel nostro DNA psichico come acqua di
risorgiva. “L’essenziale è invisibile agli occhi” ma è, appunto, essenza e sostanza.
Riemerge a tratti, all’improvviso e nei momenti più inaspettati. E’ riapparso nello scorso secolo quando i
soldati friulani furono chiamati a combattere al fronte e si riscoprirono “Alpini” forse prima che italiani.
Riemerse facendoci sentire fratelli durante le scosse di quelle montagne e la ricostruzione dei paesi che
imparammo di nuovo ad amare. Emerse con il boom economico e il sogno di una casetta, uno stavolo,
una baita in montagna. Strano fenomeno per cui dopo il ricostruire i paesi e le case esistenti si passò al
costruire per villeggiare. E mentre interi paesi della Media e Bassa pianura la domenica si spopolavano
per la transumanza umana sulle piste del Tarvisiano, di Piancavallo e della Carnia alcuni nostalgici passavano i fine settimana a ristrutturare lo stavolo o la casa comprati da chi la montagna la stava
abbandonando.
In un paese della Bassa Friulana , ad esempio, riaffiorarono le radici saurane e così, dopo secoli, famiglie
con antichi cognomi patronimici, -Petris, Moro…- tornarono sulle sponde del Lumiei.
E’ emersa in piena pandemia quando orde di turisti della domenica hanno cercato aria pura fra le
montagne. Abbiamo ancora negli occhi la fila interminabile alla stazione a valle della funivia del Lussari
e la fila indiana dalla stazione a monte al borgo.
Molte possono essere le spiegazioni all’invasione dei “turisti” nelle valli, nei paesi e nei boschi. Una
possibile ipotesi è quella “opportunista”: non si poteva andare da nessun altra parte – centri commerciali, locali e cinema chiusi – e rimaneva solo la montagna.
Un’altra può essere quella “salutistica”: nella pandemia la “fame d’aria pura” porta la gente alla montagna.
Io, che cerco sempre la vena meno superficiale delle cose, voglio pensare a quella “atavica” e nello stesso tempo psicologica: un profondo desiderio di madre. Quando un bimbo è malato o è in ansia cerca sua madre. Quando un uomo, o una donna sono ammalati, pensano alla loro madre anche se lei non può più consolarli. Ne risentono la voce e ne rivedono il volto in una sorta di auto-consolazione. E la montagna, le nostre montagne, sono “ la nostra madre” naturale. La madre del popolo friulano e giuliano. Una madre che accoglie, cura e consola. C’è da augurarsi che questo ritorno non sia solo quello di un turismo di massa che viene a consumare aria pura e cibo tipico. Che non si limiti a passeggiate, escursioni, arrampicate e sciate. Che sia l’inizio di una controtendenza in cui lo smart-working e le nuove professioni permettano a chi si sente montanaro nel DNA di tornare a ripopolare i paesi e le valli. Che sia l’inizio di un circolo virtuoso che porti persone e servizi nelle valli. Che si possa reinventare il modo di vivere la montagna: non come un luna park gratuito per i più e come un luogo dove il lavoro è scarso e precario per i pochi che ci vivono tutto l’anno ma come la nostra casa.
La nostra casa materna.

La nostra “ madre naturale” niente più di vero e sentito…. le nostre radici….❤️Grazie Omarut
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Nulla di più vero e sentito: la nostra “ madre naturale” il richiamo alle nostre origini.❤️❤️Ridiamo vita, con rispetto, alla nostra Vita!❤️Grazie Omarut🙏
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Grazie Donatella e grazie a Bruna per averlo condiviso su APDC
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Condivido pienamente. Abito in pianura (collina in effetti) e mi piace andare in montagna. Ogni volta che torno a casa appena mi trovo in zona Gemona, dove si apre la pianura, mi coglie uno strano sentimento… come se stessi abbandonando la mia “vera” casa… eppure non ho mai abitato in montagna.
A quanto pare non sono l’unico 😉
Complimenti all’autrice per la fine digressione storico-antropologica!
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