Resto sempre affascinato dalle storie che si presentano in quota, in quella bolla di montagne che nella prima guerra mondiale interessò alcune delle cime della mia terra. Un passato non troppo lontano, forse per questo più sentito, al contrario di avvenimenti di ere geologiche o epoche comunque troppo distanti per essere presenti.
Il ricordo della grande guerra nei paesi è ancora vivo qui. Erano partiti da padri, da zii, da fratelli. Molti sono rimasti come scritte epigrafiche nei monumenti dei paesi. Le loro montagne, guardate oggi, sono dorsali dormienti dove il passato di quegli uomini altro non è che una memoria accanita su qualche pietra a terra, nella disposizione geometrica di un cumulo di sassi o in qualche muro a secco ancora eretto e verticale, ma dagli intonaci sgretolati.
Lembi di terra che la terra si sta riprendendo. L’esercito della natura è forte e resiliente, sono convinto che sia il più potente al mondo. Con i suoi tempi, con i suoi modi lenti e trasgressivi, si riappropria del terreno rubatogli. Ed è giusto così, quasi ovunque. Ma la storia degli uomini, in certi casi, merita nonostante tutto di perdurare un po’ più a lungo, sia sulle montagne che nei libri di storia o, semplicemente, nella memoria delle genti di un dato territorio.
Guardo il Monte Festa sin da bambino. Dalla mia casa di Tolmezzo era solo un particolare grossolano tra i tanti all’interno delle cornici delle finestre domestiche. Relegato sullo sfondo di una scena che l’Amariana reclamava con la sua prepotenza da primadonna, era un miscuglio di boschi scuri e rocce più chiare sopra alla pianura ghiaiosa delle anse di un Tagliamento quasi sempre in secca. E per la maggior parte della mia memoria il Festa era più identificato come “la montagna con la terrazza e la casetta sulla cima” che altro. Mi sono sempre chiesto, con la curiosità di un bimbo, chi fosse quel pazzo eremita che viveva sulla cima in quella minuta casetta, al limitare del cielo, a sfidare i venti della vetta e i temporali che lo scirocco portava dal mare.
Poi sono cresciuto, anzi, mi sono fatto uomo, montanaro e curioso conoscitore delle cime di questa terra, ma restava sempre il dubbio di cosa ci fosse là su quella punta di second’ordine, anche dopo che la casetta era stata rimossa come per magia, cambiando lo skyline che mi ha accompagnato per più di 30 anni.
Aprile è il mese in cui la natura si risveglia. I primi caldi suggeriscono tepori alle gambe che vogliono lasciarsi alle spalle i freddi e le nevi dell’inverno, vogliono nuovamente salire pendii e vedere com’è il sole della cima.
Oggi mi sono deciso a svelare al bimbo che dorme in me come sia il limite di quei boschi dove resta la terrazza ma non la casetta del pazzo eremita. Farò visita al Monte Festa.
Sono solo, ho voglia di riappropriarmi di quella sensazione di solitudine che tutte le montagne amplificano. Ho voglia di perdermi nei miei pensieri e lasciarli vagare senza un recinto.
A Interneppo salgo alla sella che scende verso il paese di Bordano e devio per qualche centinaio di metri sulla strada del S. Simeone. Lascio l’auto e mi incammino lungo il tragitto di servizio che sale al Monte Festa, costruito in epoca pre-bellica al fine di approvvigionare correttamente gli uomini che vivevano nei pressi della cima. Il percorso sale dolce, non poteva essere altrimenti. I grossi cannoni dell’epoca, le masserizie e le munizioni dovevano essere trasportate in quota con una certa facilità, ma nonostante la pendenza costante, immagino le grosse fatiche di uomini, muli e mezzi in quei giorni del secolo scorso.
L’aria di primavera mi accompagna su queste pendici secche, non piove da tempo. Il lago di Cavazzo è lì ad un passo, brilla incurante di come lo hanno ridotto. Un serpentone d’asfalto e le tante palline colorate che ci sfrecciano sopra non sono ancora integrate in quella cartolina che sono i panorami della Carnia da quassù, o sono io ad avere pensieri troppo retrò. Gli stessi che mi spingono ad una netta contrarietà verso alcuni progetti ultimamente abbozzati dalla stampa, dove un’ulteriore impronta antropica si prospetterebbe all’orizzonte. Parlano di due ciminiere alte decine di metri, di generatori termici a gas metano dalla potenza enorme, di opere che riassumo semplicemente come ulteriore sfregio ad una terra che ha pagato fin troppo.
La strada s’è fatta serpente bianco, fa la spola tra i versanti della montagna ed in alto si intravede lo scoglio grigio del forte, ancora molto lontano.
Attraverso gallerie. Prendo quota con lentezza. Saluto alcune persone che scendono. E’ una salita che offre la certezza di immergersi nei propri pensieri, i passi sono tanti e mi ipnotizzano.
Alla fontana di pietra dalla croce scolpita nella roccia lascio la strada, sento la prossimità della vetta e abbandono l’iniziale idea di percorrerla integralmente. Un sentiero ripido sale nel bosco spoglio oltre i due ruderi di pietra. Sono nella zona giusta. Poco oltre, in prossimità della displuviale, un primo grosso edificio mi accoglie con il suo carico di storia. Eretto su due piani, non ne restano che il prospetto principale e i mucchi dei calcinacci all’interno. Cartelli di pericolo invitano alla cautela. Manca poco al vero e proprio forte del monte Festa, devo salire ancora qualche centinaio di metri nel bosco ed eccolo davanti a me. Un cocuzzolo corazzato con l’imbocco di alcune gallerie che si gettano nella montagna, strade di collegamento e i resti di alcuni montacarichi.

Mi faccio avanti in questa pagina di storia all’aperto, leggo i cartelli esplicativi, studio foto storiche sbiadite. Sono arrivato fin quassù dopo una vita di sguardi dal fondovalle tolmezzino ed ora voglio analizzarne ogni spazio, percorrere le mulattiere di collegamento ed infilarmi nelle piazzole d’artiglieria.
Su questa cima alcuni uomini scrissero una parte della storia della mia terra, nella ritirata di Caporetto. Un nome su tutti, forse il più importante: Riccardo Noel Winderling. Colui che tenne a bada, assieme ai suoi sottoposti, l’avancorpo dell’esercito austroungarico durante la fine di ottobre e gli inizi di novembre del 1917.
Sono uomini come lui che meritano di essere ricordati al di là dei monumenti o delle pubblicazioni. E’ migrando in questo forte che la sua presenza quassù è ancora tangibile e definita. E’ un’idea di patria che coglie anche me sulla terrazza superiore a cui accedo dalle sale interne. Oltre al sole e ai panorami di Carnia, sventola un tricolore sul punto più alto dell’aereo piazzale. Venti anni fa, ogni mattina, cantavo un inno sul piazzale della caserma inquadrato tra i commilitoni, lo sguardo da artigliere doveva essere fiero, incazzato e voltato alla stessa bandiera tricolore che sventola oggi quassù, sulla cima del Monte Festa. Winderling era artigliere, come – in pratica – lo sono io, anche se la mia generazione ha la fortuna di non doversi preoccupare troppo di guerra. E’ forse per quella bandiera silenziosa e solitaria che il mio essere, comunque attento ai valori degli alpini artiglieri, viene colto da una suggestione che su questo piazzale assolato si fa prepotente.
Ho sempre pensato a come doveva essere la guerra. Anche ora, quassù, sento i vecchi muri parlare con la voce della storia.



Sono le 10.50 del 30 ottobre 1917. Il comandante ci ha dato l’ordine di fare fuoco. E’ la prima volta che dal nostro nido d’aquila accade qualcosa del genere dall’inizio della guerra. Hanno sfondato sul Carso ma non si capisce come abbiano fatto ad arrivare da Tarvisio. I nostri osservatori dicono che sono a centinaia, forse a migliaia. Sono servente al secondo pezzo da 149. Spariamo concentrando il tiro sul ponte di stazione Carnia, su Amaro e Tolmezzo ma piove e c’è nebbia. Oggi non si mangia, troppo casino.
31 ottobre. Il montacarichi vomita proiettili che trasportiamo in piazzola e che usiamo quasi subito. Oggi, fortunatamente, c’è un timido sole autunnale che asciuga un po’ il nostro sudore. Sono di turno dalle prime luci dell’alba, un caffè annacquato e due gallette. Da giù non arriva altro, non abbiamo tempo per chiedere come mai stia succedendo tutto ciò e da valle non ci arrivano notizie
1 novembre. Il capitano ci ha radunati a gruppi mentre i cannoni continuano a sparare. Comincio a non sentire più molto bene per il continuo trambusto e i tuoni incessanti. Stanotte non ho dormito perché quassù vibra tutto e sono arrivate anche alcune granate sparate contro di noi dalla zona di Carnia. Winderling dice che dobbiamo tenere duro, di fare del nostro meglio anche senza gli osservatori dell’Amariana e del S. Simeone.
2 novembre. La situazione si è fatta disastrosa. Voci dicono che gli austriaci stanno invadendo il Friuli ma noi continuiamo a sparare, da oggi anche verso Osoppo. Almeno ci proviamo, non ho mangiato nemmeno oggi e mi sento debole. Dormo nella galleria bassa, buttato a terra non si sta nemmeno tanto male.
3 novembre. Sembriamo fantasmi stanchi, i magazzini si stanno svuotando, manca acqua. Roia e Faleschini stanno male, così come almeno altri 30 commilitoni
4 novembre. Nel pomeriggio siamo oggetto di un tiro continuo da parte del nemico. Questi stronzi non ci prendono, non sono bravi come noi. Però sono riusciti a ricostruire il ponte sul Fella e passare, stiamo provando a bloccarli meglio possibile ma sembrano non finire mai. Al pezzo siamo rimasti in 4, gli altri sono sfiniti. Il capitano passa in continuazione a darci coraggio, non so come faccia ma chi resta lo fa per lui.
5 novembre. Ci bombardano da tutte le parti. Diversi colpi han centrato la nostra cupola ma ha retto, però non possiamo rispondere al fuoco perché le munizioni scarseggiano. Anche oggi non si mangia, non ho più né fame né sonno, non so cosa succederà di noi quassù. Pare che tutti gli altri siano scappati verso l’Arzino passando da Alesso, e noi quassù abbandonati da Dio. Ma il capitano è ancora con noi, oggi ha dato una mano a liberare dai bossoli il piazzale ostruito, non si passava più
6 novembre. Ci attaccano a fucilate. Vedo Dorigo buttare il fucile a terra e smuovere sassi per farli cadere in testa a quelli sotto. Sono quasi su di noi, ho tanta paura di morire. Il Ten. Tomei porta al forte un graduato delle Sturmtruppen e chiede di arrenderci ma Winderling è furbo e li infinocchia. Ci chiama tutti sul piazzale e da’ gli ultimi ordini. Alle 6 facciamo saltare tutto e scappiamo



Il capitano Winderling scenderà dal monte Festa quella sera, con metà degli uomini rimasti, verso la valle, incamminandosi nei boschi della zona per raggiungere le retroguardie dell’esercito italiano passato di là più di 2 giorni prima. Un uomo che ha rallentato l’avanzata dell’esercito avversario in una maniera incredibile, utilizzando pochissime armi in un gesto di abnegazione, suo e dei suoi uomini, che andrebbe insegnato a tanti giovani d’oggi. Rimasti unico avamposto della linea italiana a fronteggiare un nemico soverchiante per numeri e mezzi, mantennero la posizione fino alla fine, tentando una disperata fuga finale.
Resto ancora qualche minuto quassù, ho in corpo un sentimento di riconoscenza che non mi so spiegare. Attraverso le stanze sotterranee del forte, dove l’odore della muffa si mischia al tepore dei prati secchi che arriva dall’esterno. Risalgo alle postazioni dei quattro obici, a terra il granito della base luccica al sole in pochi spazi ancora scoperti dall’erba. Sul muro perimetrale della batteria le cellette dei proiettili hanno il fondo di legno, lo stesso che più di un secolo fa vide le granate roventi uscire dalle canne dei 149. Sono ancora qui Winderling e i suoi uomini, li sento presenti attorno a me. Si urlano, corrono, fumano sigarette mentre le bocche da fuoco continuano l’ incessante rombo.
Scendo alle riserve sottostanti, gli ingranaggi dei montacarichi non esistono più ma vedo soldati che li fanno girare. La stanza è ricolma di granate vuote e i cannoni, per un attimo, tacciono.

La lapide vicina alla bandiera italiana recita:
Dolore e morti per la patria – Autunno 1917
Pace ora e Sempre – Autunno 2017.



Informazioni utili
La salita al Monte Festa a 1055m, e all’omonimo forte, è realizzabile in due maniere: attraverso la strada sterrata, lunga ma dalle basse pendenze, o dal sentiero CAI 838 che sale in maniera più diretta.
Per la prima opzione il parcheggio si raggiunge dalla sella tra i paesi di Interneppo e Bordano sulla S.P. 36 (cartello con indicazioni M. Festa), parcheggiando all’inizio della strada che si stacca sulla sinistra. Il percorso è evidente e privo di alternative. Tempo totale A/R: dalle 5.00 alle 6.00 ore – difficoltà T – Dislivello 770m, distanza 9 km circa (sola andata).
La seconda opzione, lungo il sentiero CAI 838, prevede la partenza nei pressi dell’abitato di Interneppo, a quota 257m. Il tracciato del sentiero sale in maniera più decisa, intersecando più volte la strada sterrata del forte ed è un’ottima alternativa per chi vuole salire/scendere al Monte Festa con tempi ridotti. L’inizio del sentiero si raggiunge entrando in paese dal lago, imboccando via Principale e quindi via Rive che termina nel parcheggio. Il sentiero su una traccia forestale (quota 257 m – bollini). Tempo totale A/R: dalle 4.30/5.00 ore – difficoltà E – Dislivello 800m, distanza 4 km circa (sola andata).
Persone allenate possono considerare per l’anello (salita via strada e rientro lungo il sentiero) una tempistica media di 3.00 ore.