Cent’anni dopo su Spina Pesce

In questi anni si ricorda il centenario della grande guerra, anche qua in Carnia. Numerose volte sono salito sulle nostre cime di confine avvolto dai pensieri della memoria, girovagando sui luoghi che un secolo fa videro, stantie, le nebbie dell’odio e della crudeltà.

Ho voluto rivedere un pezzo scritto qualche tempo fa inerente una storia di soldati che, non so bene perché, mi ha coinvolto emotivamente parecchio. Inserita nella storia della mia famiglia, seppur mio nonno non avesse vissuto in prima persona la Grande Guerra, ne è venuto fuori questo racconto che dedico a chi, anche per me, ha portato avanti valori che si stanno perdendo. 

24.05.1915 – 24.05.2015 Centenario dell’entrata in guerra dell’Italia

Sono sempre rimasta in pace quassù, avvolta da spazi di cielo e terra dove lo scorrere del tempo altro non è che il procedere regolare del sole in cielo. Sorge a levante, dietro ai monti di Volaia, cala a ponente verso la Pietra bianca. Da sempre è così, ora dopo ora, giorno dopo giorno, secolo su secoli. Del resto a duemila metri sul livello del mare, nel cuore delle Alpi Carniche, c’è poco da inventarsi.

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Spina Pesce e malga Bordaglia di Sopra

Quassù le giornate si alternano come le stagioni, ci siamo abituate tutte, è così che deve andare. Nascemmo in fondo al mare e in fondo al mare torneremo, prima o poi, io e le mie sorelle. Cime di conchiglie, alghe e gusci marini, grigie con il caldo e bianche con il gelo, questi da sempre i nostri colori.

Ma c’è stato un tempo, circa cent’anni fa,  in cui i nostri colori naturali mutarono macchiandosi di rosso, rosso sangue. E nero, nero fumo, per le esplosioni delle granate.

Io e le mie sorelle non ci vantiamo certo di questo periodo, andrebbe dimenticato per quanto successo. Ma non possiamo farlo, ne portiamo indelebili i segni sulle nostre prue di roccia. Tre anni sono bastati a cambiarci per sempre.

Non ricordo di averli mai visti prima, o meglio, a pensarci bene alcuni bipedi passarono in precedenza da queste parti portando sulla schiena china grosse scatole simili a dei piccoli armadi, trasportavano la loro vita in spalla e cianfrusaglie da vendere a quelli che stavano dall’altra parte, a Nord. Li chiamavano “i cramaars” – venditori ambulanti obbligati dalla miseria a lasciare la terra Natale per cercar fortuna dove la vita regalava qualche soddisfazione in più. Passarono numerosi ai miei piedi diretti tutti all’insellatura più su, dove la mia sorella grigia e tonda incontra in basso quella rossastra. Gli echi delle nostre pareti portavano voci, lamenti di fatica, ansimi e frasi stentate dette col fiato rotto. Dicevano “Pasin pal Giramondo, e dismontin par daur, viers l’Austria”.

Gli uomini si sa, spesso non sanno accontentarsi di quello che hanno e vogliono di più. Ma quassù non vige la loro legge, quassù vale la nostra.

Qualche stagione di calma, neve poi fiori e odore di larici in gemme e sono arrivati a centinaia – sulla schiena sacchi più piccoli, vestiti di verde. La neve se n’era appena andata via, ne sentivo la fresca consistenza entrare nelle mie viscere. Dalla mia cima li vedevo tutti e potevo studiarne gli intenti. Dapprima arrivarono in pochi, per lo più dotati di grossi binocoli, carta e calamaio con cui, beata ingenuità di cima alpina minore, immaginavo immortalassero le nostre atmosfere come pittori alle prime armi. Capì poi che non si trattava di artisti neofiti bensì di soldati cartografi quando, assieme ad altre centinaia, si misero a scavare grosse buche nella terra. Geroglifici scuri nei nostri prati vennero disegnati in profondità come se dall’alto un’enorme mannaia calasse con forza sulle alture.

I pendii brulicavano di vita.

Presero a trainare grossi pezzi di ferro su per i ripidi prati, a spostare enormi quantità di sassi per disegnare linee di centinaia di metri dove correrci dentro a testa china. Fatiche immani per questi bipedi, non ne capivo il senso.

I pendii brulicavano di vita, ma, ora, anche di morte.

La chiamavano “guerra”, ne ho sentite di ogni colore, ne ho viste tante.

Quelli verso il sole portavano strane piume nere su cappelli verdi di feltro. Quelli verso l’orizzonte di cime a Nord parlavano in maniera più dura e meno musicale. Sono rimasti tre anni quassù, e in quegli anni mi hanno tenuto compagnia quando fui grigia e anche quando fui bianca.

Alpini – Kaiserjager – Bersaglieri – Schutzen – italiani – austroungarici.

Le mie sorelle furono prese di mira subito, fin dalla comparsa dei primi soldati quassù.

Ne bucarono le pareti a suon di mine e trivelle. Sentivo il ticchettio tremolante delle perforatrici anche in piena notte, talpe umane condannate ai lavori forzati nel ventre delle cime a me dirimpettaie. Come il tarlo scava il legno, quassù scavarono le nostre cortecce di  roccia creando buchi neri da cui spiarsi in cagnesco per interi giorni e interminabili notti. Costruirono baraccamenti sui loro fianchi, trinceramenti sulle dorsali.

Di me non si curarono inizialmente, la posizione defilata della mia cresta non interessava a nessuno.

Guerra. Sentivo scoppi di granate perdurare all’infinito, riecheggiare ingigantiti per perdersi giù nella valle di Bordaglia. I proiettili partivano da dietro le altre cime, con fischi che facevano rabbrividire quelli con la piuma sul cappello. Fino ad allora quassù fischiarono solo le marmotte, ma il sibilo delle granate non posso dimenticarlo, a cent’anni di distanza è ancora incancellabile nelle mie pieghe.

Quando le battaglie si fecero cruente, su verso il passo Giramondo, allora si accorsero da entrambe le parti che dalla mia cima rocciosa si potevano guardare meglio a vicenda. Spiarsi di sottecchi, guardare senza essere visti.

Gli italiani cominciarono a chiamarmi “Spina Pesce”, dissero che gli rassomigliavo per com’ero fatta. Una lisca di roccia emergente dal laghetto che ancora oggi giace ai miei piedi. Che cosa strana, una montagna chiamata come la parte di un pesce.

Li presi in simpatia.

Inizialmente asserragliati ai miei piedi, tra i mughi rigogliosi ai lati del laghetto di Bordaglia, vollero poi a tutti i costi stare sulla mia dorsale, stretta e sfuggente dal loro lato.

Erano italiani, erano alpini.

Dall’altra parte del mio crinale quelli dall’accento duro lavorarono giorno e notte facendomi due grossi buchi per ripararsi come topi nel mio ventre. Se ne stavano al fresco durante le assolate giornate estive e al caldo delle stufette a legna mentre fuori era gelo o imperversava la bufera. Costruirono un camminamento coperto e sulla mia punta una piccola postazione fortificata con pietre e cemento.

Sull’altro versante, a una trentina di metri di distanza, sulla mia cresta larga non più di un paio di metri, nessuna fortificazione. Gli Italiani si riparavano sotto le stelle. Gli alpini hanno pregato per mesi, bagnati dalla pioggia o coperti sotto la neve, con il calore del sole che cuoceva la testa all’interno delle lamiere degli elmetti Adrian.

Li sentii piangere. Le loro lacrime bagnarono le mie rocce sin dall’inizio della stentata occupazione. Maledirono le loro condizioni bestemmiando contro gli austriaci. Mai una parola contro l’Italia. Dovevano tenerci parecchio, più della loro vita.

“Quando tuo nonno mi parlava della guerra, gli occhi gli si scurivano subito. Era come vedere l’arrivo di un temporale estivo sulle montagne della Carnia.. Hai presente no, quando d’estate vengono giù dalla valle del But quei nuvoloni neri a coprire cime, boschi e prati? Ecco, nei suoi occhi appariva il temporale che doveva aver vissuto lassù.

Fece gran parte della guerra nella zona di Forni Avoltri, mi parlava spesso di quegli anni, seppur con ritrosia, raccomandandomi un giorno di parlartene, per farti capire fin dove la mente umana può spingersi, quasi a sfiorare perversione e pazzia.

I suoi racconti si concentravano sulle vicende della zona del Lago di Bordaglia, dove c’è quel laghetto su, sopra a Pierabech. Beh, pare che arrivò con il suo reggimento nell’inverno del 1916, a detta sua il peggior inverno mai visto. Da quel novembre cominciò a far freddo e nevicare talmente tanto che le operazioni militari di routine dovettero essere sospese nonostante gli sforzi di nonno e dei suoi commilitoni. Mi diceva che c’era talmente tanta neve che le trincee da loro scavate, alte più di due metri, non esistevano più. I muli, bestie per loro più sacre dei Santi, erano impossibilitate a muoversi perché sprofondavano fino al garrese. Senza muli i rifornimenti arrivavano nell’accampamento del nonno solo a spalla, una fatica immane dover portarsi tutto sulla schiena, persino le munizioni più grosse dal peso di svariate decine di kilogrammi.

Poveracci.

Mi disse di aver spalato neve per liberare le postazioni di tiro e le trincee per giorni interi. Verso sera, alcuni giornate, perdeva completamente la sensibilità alle mani, vuoi per il freddo pungente ma soprattutto per la fatica quotidiana.

Dopo le grosse nevicate tutto era bianco e potevano muoversi solo con gli sci ai piedi e nottetempo. Di giorno sarebbero stati come bersagli neri su fondo bianco, facili prede dei proiettili che piovevano dalla Creta di Bordaglia e il Biegenkopf. Vivere senza farsi vedere, tranquillità non era parte del loro dizionario. Normalità nemmeno, figuriamoci.

Tuo nonno era un grande sciatore, se la cavava con i legni già da prima della guerra. Imparò le tecniche sin da bambino nei prati di Muina e sotto gli alpini ebbe modo di dedicarsi allo sci quando venne spedito, assieme ad alcuni commilitoni, in avanscoperta nel vallone del Rio Bordaglia, diventato un’autostrada per il continuo scorrere delle valanghe di quell’inverno infame. 

Dopo questo primo periodo di adattamento, i racconti del nonno erano tutti incentrati su una cima il cui nome mi ha sempre fatto sorridere. La chiamava “lisca di pesce”, o qualcosa del genere… Fattostà che l’azione più eroica che mio padre compì fu quella di conquistarne la cima attraverso la parete più disagevole, quella del versante italiano. Glielo ordinarono sapendo che era un discreto cacciatore. Lo scopo dell’azione era di osservare gli spostamenti avversari al vicino varco di accesso alla zona. Il nesso tra cacciatore ed alpinista non l’ho mai capito, ma pare che quella volta le due cose andassero a braccetto.

Lui e i suoi commilitoni tentarono l’ascesa di notte, alla luce della luna di maggio perché qualsiasi torcia sarebbe stata subito scorta dal nemico, con conseguenze facilmente immaginabili. Mi disse che la salita oppose difficoltà di terzo grado. Ma ci pensi fare un’arrampicata al buio e con il rischio di beccarti una pallottola sulla schiena? Altro che arrampicata libera, scarpette e No limits extreme!  

Insomma, riuscirono negli intenti e la cima dove si sistemarono era talmente stretta e scomoda che di giorno non potevano permettersi di alzare nemmeno la testa dal terreno perché le pallottole nemiche gli fischiavano subito addosso. Tenuti costantemente sotto tiro. Ci misero due giorni a costruirsi un parziale riparo ammassando pietre davanti a loro. I sassi sono più duri degli elmetti, diceva.

Nonostante fosse maggio ricominciò a nevicare per otto giorni di fila, quel maledetto inverno non voleva morire, come tuo nonno. Resistettero, attaccati alla vita più che mai, spostando con le mani la neve che si accumulava su di loro, ormai fradici sin nell’anima. Lottarono contro il freddo, il sonno e il nemico che dall’altra parte della cresta se la spassava dentro la garitta di cemento della cima.

Alla fine i superiori del nonno ebbero il buonsenso di decidere per l’abbandono della posizione, stavano morendo di fame perché i rifornimenti a causa della neve non potevano essere più garantiti.

Ricordo le lacrime sul viso di mio padre, quelle rocce inospitali erano diventate la sua casa. Lì aveva perso alcuni tra gli amici più cari e l’ordine di abbandono della postazione gli straziò il cuore. Giorni di sacrifici parvero vani, morti inutili come inutile è stata quella guerra. Il nonno preparò la calata per i suoi sottoposti e fu l’ultimo ad abbandonare la cima,  scendendo lungo la corda di canapa. Di notte anche le lacrime degli uomini più forti non si vedono, rigano il volto e scorrono silenziose. Quella notte andò così, l’ultima su “Lisca di pesce”. Nevicava ancora.”

Oggi, sulla mia cima, è ricomparso uno di quegli strani cappelli con la piuma. In testa ad un ragazzo vestito con i colori sgargianti che si vedono nei fiori dei prati di quassù, non ha corso a testa bassa con la paura di prendersi una pallottola in testa. A guardarlo bene rassomigliava proprio a quel Duilio che cent’anni fa mi tenne compagnia in quell’inverno quando fui particolarmente bianca. Assieme ad un altro li ho sentiti parlottare, volevano ripetere l’ascesa del mio versante più impervio, quello dove cent’anni prima salivano gli alpini della guerra e dove nessuno, da allora, s’è più avventurato. Ma anche stanotte mi sono messa l’abito bianco ed ho bloccato i loro intenti cogliendoli alla sprovvista.

Allora, silenziosi, hanno risalito le mie dorsali settentrionali dove stavano gli austriaci cent’anni fa, con qualche scivolone sulle mie pietre nascoste, giungendo infine ai resti della casamatta sulla mia cima. Il primo ha seguito la mia esile cresta arrivando dove i miei fianchi si fanno parete verticale e s’è seduto vicino al chiodo che mi conficcarono in una notte di maggio del 1917. Al chiodo, ancora legato, uno spezzone sfilacciato di corda di canapa. L’ha estratto dalla roccia senza fare alcuno sforzo e stringendolo tra le mani ha detto ad alta voce “GRAZIE”, interrompendo il silenzio che mi avvolge e volgendo lo sguardo alla cresta dove gli alpini si riparavano sotto alle stelle.

“Ora quassù tutto è nostro come loro, grazie a mio nonno Duilio e a tutti quelli che l’hanno fatto anche per noi. I prati ricolmi di fiori, i cervi che prima ci hanno tagliato la strada, l’odore resinoso dei pini mughi, le acque cristalline dei laghi di Bordaglia e quota Pascoli, le pareti grigie del Biegenkopf e quelle rossastre della Creta di Bordaglia. La memoria che la dorsale di Cima Spina Pesce porta con se, così come tutte le cime qua attorno. A noi farne tesoro perchè tragedie del genere non abbiano più a segnare le nostre anime e le nostre amate montagne. Mandi Duilio”

La fontana dell'alpino
La fontana dell’alpino

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Salendo
Salendo
La cresta dalla postazione di vetta
La cresta dalla postazione di vetta
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Alpino al presidio di Spina Pesce
Brigata Julia - 3°RGT. Artiglieria da Montagna
Brigata Julia – 3°RGT. Artiglieria da Montagna
Creta di Bordaglia e lapide commemorativa dei bersaglieri ciclisti
Creta di Bordaglia e lapide commemorativa dei bersaglieri ciclisti
il laghetto di quota Pascoli
il laghetto di quota Pascoli

Omarut e Sbriz

INFO UTILI: La cima Spina Pesce è una dorsale compresa tra la Creta di Bordaglia e il vallone del Rio Volaia, sfiora nel suo culmine i 2000m di quota e non risulta servita da sentieri di accesso. La salita alla cima tuttavia non oppone particolari difficoltà (un paio di passaggi di I° inf) ed avviene lungo lo spallone N dove si trovavano gli avamposti austriaci. Sulla dorsale di vetta si notano i resti del camminamento e della casamatta da cui gli austriaci tenevano sotto tiro gli alpini italiani sulla cresta verso il lago di Bordaglia. Punto panoramico sul lago di Bordaglia con una prospettiva insolita. Dalla malga di Bordaglia alta considerare 45 min di ascesa – EE.

In merito a quanto successo in queste zone durante la grande guerra, vi consiglio la lettura del libro “Compagnia volontari alpini Gemona. Gemonesi e cividalesi nella grande guerra”, scritto dall’amico Marco Siega. Di seguito il link per l’acquisto:

Panorama da quota pascoli
Panorama da quota pascoli
regali della natura
regali della natura
regali della natura
regali della natura

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7 pensieri su “Cent’anni dopo su Spina Pesce

  1. Wow. Ciao Omarut. Non ho altre parole per commentare il tuo articolo, se non “wow” e “grazie”. È un grazie diverso però, quello di oggi. Va oltre la fatica che hai fatto e le parole che hai scritto per descriverla, come capita di solito, per una normale ascesa, escursione o gita scialpinistica. È un grazie intanto a chi quelle cime le ha colorate, purtroppo, di rosso…cerchiamo di non dimenticarli: il “Tenente Nino Barnaba di Buja” e tutti i suoi commilitoni che, a vent’anni e a volte meno, hanno lasciato tutto per andare in guerra per noi, per fare quella che io chiamo Patria, e che viene ogni giorno vilipesa da una masnada di cialtroni. Ed è un grazie per il modo in cui comunichi la tua montagna a noi comuni mortali, con i suoi sentimenti, perché la montagna è viva, e tu lo sai meglio di noi, la montagna ci parla, e a volte non l’ascoltiamo, la montagna l’abbiamo dentro (anche nel savalon). Grazie anche per la lacrima che mi hai fatto fare leggendo le tue belle parole, grazie Alpino, e a Casera Razzo, la prossima volta che sei su, guarda per aria, non si sa mai… Fox

    🐪🌴

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    1. Un Grazie lo dico io per averti come amico, un amico speciale anche se sta nel “savalon”.. Ma internet ci da una mano, se ci fossero stati ancora i piccioni viaggiatori forse qualche problema in più lo avremmo avuto. Occhio che se passi sul Bivera ti vedo eh 🙂

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