Mangart, cima di confini

25.10.2018

“Questa si che è una bella rogna!” disse quella sera Cirillo al bar di Cave. Il turno in galleria appena finito lasciava sul volto il nero fumo di centinaia di lampade mal funzionanti appese ai trespoli giù, nel ventre della terra.

Cave del Predil negli anni ’50 era un paese ricco e brulicante di vita, la miniera di piombo e zinco dava lavoro, fatica e pane per sfamare intere famiglie che vivevano stipate in grandi casermoni anonimi. E l’inverno era freddo, aghi di brina ricoprivano tutto che pareva fosse appena nevicato.

“C’hanno tagliato fuori dal nostro Mangart, dovrà pur esserci una maniera per risolverla questa faccenda” continuò cercando nello sguardo dei suoi amici seduti un appiglio a cui attaccarsi, una presa sicura per non lasciarsi scoraggiare.

Dal fondo della sala un uomo robusto esclamò a gran voce “A si Cumbina ben, i crets iu conossin ben, plui di chei quttri maucs ca son par sore” (la risolviamo sicuramente, le rocce le conosciamo bene, meglio di quei quattro stupidi che ci stanno sopra). Dopo mesi di discussioni, quella era la serata giusta per condividere tra amici l’idea vincente. Una visione che poteva nascere solamente da quel manipolo di uomini che oltre ad essere amici per la pelle nelle viscere della terra lo era, soprattutto, mentre legati salivano le pareti sulle cime del Tarvisiano. I turni in miniera non erano mai abbastanza lunghi, i lavori mai troppo duri per evitare loro le uscite alpinistiche della domenica o le arrampicate serali al chiaro della luna. Passione per l’alpinismo, lacerante e dirompente. Totalizzante.

Poteva mai un trattato, firmato a migliaia di kilometri da Cave, negare a quel manipolo di funamboli verticali l’accesso alla loro montagna?

Potevano eleganti sconosciuti vestiti in doppiopetto stabilire arbitrariamente quella linea di confine che dal ’47 significava solo problemi, libertà spezzata e sogni di gloria infranti? Gli alpinisti non possono essere tenuti a bada con il filo spinato, ne tantomeno con le canne dei Kalashnikof.

Quella sera d’inverno, mentre fuori nevicava fitto e nella stanza del bar il vino scaldava gli animi, Ignazio presentò la sua idea. Espose il suo progetto con rassicurante tranquillità, conscio della forza delle proprie idee. Poche frasi, un progetto ambizioso ma che trovò subito il consenso dei presenti.

“I vin da faa une ferade ca leeti su par sore il ricovero dal Travnik, la ca son che dos buscias tal cret. Si lin viers sinistre, i rivin sot dal Mangart sence laa dai Slaavs e no nus podin faa nue” (dobbiamo fare una ferrata che salga sopra il ricovero del Travnik, dove ci sono quelle 2 buche nella roccia. Se andiamo verso sinistra arriviamo sotto al Mangart senza sconfinare dagli slavi e non ci possono fare niente).

In sala sguardi luccicanti d’emozione già facevano capire che di lì a poco il seme piantato quella sera d’inverno da Ignazio sarebbe germogliato in breve portando alla creazione di un percorso unico nel suo genere, non tanto per le difficoltà tecniche dei passaggi, quanto per l’ambizione di sfiorare, salendo, quelle che venivano viste come figure losche e pericolose. Più che un confine una linea di morte.

Le guardie confinarie dell’esercito Yugoslavo, i cosiddetti Graniciari, come avvoltoi stavano appollaiati sul belvedere di cresta, facendo la spola tra la forca della Lavina e le pareti Nord del Mangart. Ed erano sempre li, pioggia sole o neve la sicurezza della loro presenza era diventata un’ossessione. Soprattutto per chi nelle cime della conca di Fusine aveva la seconda casa.

Da qualche anno, dopo il trattato di Parigi, la salita alla cime del Mangart era diventata cosa assai rischiosa, peggio di una salita in aperta parete. Confini dettati a tavolino ne rendevano di fatto impossibile l’ascesa da parte degli italiani, a meno di non rischiare di prendersi una pallottola in testa.

 

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I lavori cominciarono appena possibile, con la neve ancora alta perché la Fusine dei tempi era più simile alla Siberia che a una tranquilla località turistica di media montagna.

Il gruppo di amici si adoperò come non mai alla realizzazione di quest’opera. Erano uniti nell’intento comune e quando quei personaggi si mettevano in testa una cosa, quella doveva essere, ad ogni costo. Grazie anche all’appoggio dell’ingegner Nogara, capo della miniera di Cave, materiali ed attrezzature da lavoro furono riadattate e posate sulle pendici nord del Mangart, ad un passo dagli stivali dei graniciari. La linea di confine era veramente vicina, e dicono le cronache, a volte qualche pallottola di sfida fischiò verso l’Italia.

La ferrata italiana al Mangart prese forma anche grazie agli alpini e consentì nuovamente l’accesso alla fascia mediana della montagna, dove il confine volge a meridione lasciando aperto lo spiraglio d’accesso verso la cima principale. Il percorso doveva obbligatoriamente arrivare lì, altre soluzioni non ce n’erano.

 

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Mancano pochi metri alla fine della ferrata. Ho passato una piccola dorsale di rocce levigate e scivolose dove i miei scarponi hanno poggiato su di una traversa in ferro posata negli anni 50 da quei matti di Cave. A tratti mi innalzo solo grazie a vecchi gradini scavati nella viva roccia. Sotto ai piedi l’esposizione s’è fatta vuoto pesante, i larici gialli dell’autunno aspettano la neve 800 metri più in basso. Dall’ombra del versante in cui salgo un piccolo cippo di confine bianco sta al sole segnando linee immaginarie che per noi, al giorno d’oggi, altro non sono che smagriti ricordi. Da ragazzo si andava con i miei a fare benzina in Yugoslavia, a comprare lo zucchero, il caffè, le stecche di sigarette. Quand’ero ragazzo li, probabilmente, stava ritto un uomo con fucile in spalla che guardava l’Italia dall’alto.

Europa vuol dire anche questo, mi sento fortunato salendo alla cuspide finale, su verso la croce di vetta. Incrocio ragazzi che provengono un po’ da tutto il continente. L’accento smaschera frasi solo accennate.. Dobro, Hello, Hi, ciao.. Né io né loro dobbiamo più pensare che dietro l’angolo qualcuno è pronto a farci passare guai seri solo perché stiamo calpestando queste rocce e non le stesse a 10m di distanza.

Gli spazi che si godono da quassù sono cieli senza barriere. Il Mangart è un cippo di confine di per sé, non di genti ma di spazi. A Est Alpi verdi e boscose, quelle che più mi s’addicono. A Ovest un giardino di pietra stinta verso il Triglav e lo Jalovech che oggi m’incute quasi tristezza.

Il Mangart è il ricordo di chi c’ha preceduto, con le loro passioni totalizzanti. Penso a Cirillo con cui ebbi la fortuna di fare qualche uscita, a Ignazio, a Umberto e a tutti gli altri.

Grazie

Omarut, Max e Gabriella

 

 

Info utili: la ferrata italiana al Mangart attacca nei pressi del Biv. Nogara attorno a quota 1900 e si sviluppa sulla parete Nord di un avancorpo della cima (il bivacco è raggiungibile dai laghi di Fusine attraverso il sent. CAI 517 Alpe vecchia – Biv. Nogara in circa 2.30-3h). Non presenta tratti troppo impegnativi benché, verso l’alto, sia piuttosto verticale ed a tratti esposta. Risulta comunque ottimamente attrezzata. Tempi di percorrenza dai 60 ai 90 min, dislivello sui 300m e sviluppo di poco superiore. Necessaria l’adeguata attrezzatura (kit da ferrata e caschetto).

Giunti sullo spallone mediano, dove la ferrata termina e si congiunge alla salita normale che si raggiunge anche dal rifugio sloveno Kocana Mangrtskem Sedlu (strada percorribile in auto via valico del Predil) è possibile salire alla cima del Mangart a 2677m attraverso la via normale segnalata ed attrezzata (grado EE – rari passaggi di I° in 1.30h) o la facile ferrata slovena. Il tutto risulta ben segnalato in loco.

Quanto sopra descritto è stato immaginato dal sottoscritto e potrebbe non corrispondere in toto ai fatti avvenuti. Ringrazio per le informazioni ricevute l’amico G.A. Ennio Rizzoti.

 

 

 

   

 

 

4 pensieri su “Mangart, cima di confini

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